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Il colloquio
Chiacchiere con il maestro del fumetto erotico Milo Manara. A Venezia il film a lui dedicato
"Il desiderio rappresenta un valore positivo" dice il fumettista, che disegna corpi come si tracciano paesaggi interiori. Mentre in un mondo in cui le immagini erotiche vengono generate da algoritmi, "la passione perde di genuinità"
In un tempo che tutto divora – immagini, corpi, narrazioni – Milo Manara continua a disegnare il desiderio con la grazia di chi conosce la lentezza. A quasi ottant’anni (è nato il 12 settembre del 1945 a Lüsen, un piccolo comune in provincia di Bolzano) il maestro del fumetto erotico – pardon, dell’estetica erotica – guarda al presente con lo sguardo di chi ha attraversato più stagioni del costume e continua a interrogarsi. “Il desiderio rappresenta un valore positivo. Semmai a farsi pericolosa è la sua soddisfazione. L’unica cosa peggiore di non realizzare i propri desideri è realizzarli”, dice al Foglio quando lo incontriamo a Venezia. All’82esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica è venuto a presentare alle Giornate degli Autori “Manara”, il film che gli ha dedicato la regista Valentina Zanella, che lo ha scritto con Tito Faraci e Federico Fava. “Il piacere ha una sua ambiguità”, aggiunge lui, e forse è proprio questa ambivalenza la chiave per rileggere oggi il suo lavoro: non come provocazione, ma come esplorazione di un’energia umana e misteriosa”. L’eros, nel suo tratto, non è mai sopraffazione, ma curiosità, apertura e dialogo. I suoi disegni attraversano il mondo del fumetto con una cifra riconoscibilissima, fatta di eleganza, sensualità e provocazione mai volgare.
“Adoro il nudo femminile che è sacro e terribile, ma il corpo della donna ha una potenza che va rispettata”, precisa. “Nelle mie storie non sono mai oggetto, ma soggetto”. In un mondo in cui molte immagini erotiche vengono generate da algoritmi, cosa perde, dunque, o cosa guadagna, il desiderio quando è prodotto da una macchina e non da una fantasia umana? Gli chiediamo. “Dirò una banalità – ci risponde tenendo in mano un calice con del rosé – ma in questi casi penso che il desiderio perda di genuinità. Escludo, per il momento, che una macchina possa desiderare. Forse può mettere in scena il desiderio, può illustrare lo stesso, certo, ma manca la genuinità della rappresentazione, la partecipazione emotiva. Per questo, almeno per il momento, mi auguro che la macchina non arrivi a tanto. Per quanto riguarda, invece il disegno, credo che la macchina possa disegnare anche meglio del disegnatore. Basta darle da mangiare il cibo giusto” (ride, ndr). “Sicuro può disegnare meglio di me e di molti altri” (ride di nuovo, ndr). Manara – che presto pubblicherà la seconda versione de “Il Nome della rosa” con Oblomov/La nave di Teseo e un episodio di “Sin City” – ha spesso detto che l’erotismo è una forma di libertà. “Nel ’68, L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse era una sorta di bibbia per noi, il libretto rosso di Mao è venuto dopo. La mercificazione di tutto aveva portato alla considerazione dell’uomo come consumatore, ma che la libertà sociale passasse attraverso la liberazione sessuale ed erotica – come scrisse sempre Marcuse in un libro successivo, Eros e civiltà, non lo sapevo. E’ stato l’input per quello che è poi divenuto il mio lavoro. Ho sempre disegnato i miei personaggi con uno sguardo al di la’ di quello masturbatorio, con contenuti culturalmente erotici, perché per me la pornografia uccide l’erotismo. Io racconto l’attesa, la tensione, la libertà, anche se la liberazione sociale dell’erotismo non è ancora avvenuta del tutto. Il fumetto conserva una potenza sociale, ma mai come in passato che apriva la mente, anche perché internet non c’era”.
Tra i suoi personaggi più celebri c’è Giuseppe Bergman, l’eroe spaesato e perplesso, il suo alter ego, in bilico tra avventura e nevrosi, ma le vere protagoniste restano, come ricordato, le sue donne: dalla sensuale Miele del Gioco alle muse culturali, come l’omaggio pittorico a Caravaggio o la grande collaborazione con Fellini. “Sono caduto innamorato di Fellini da ‘8 e mezzo’ in poi, conoscevo tutto di lui. Un giorno mi telefonò e mi disse: ‘Milone, sono stato toccato dalla tua storia, vieni a Cinecittà’. Andai. Sembrava che lo conoscessi da sempre, mi sembrava di conoscere Raffaello Sanzio, per me era un mito. Mi rimproverava: ‘Non mi telefoni mai’. E io gli rispondevo che non lo facevo perché mi tremavano le mani a comporre il suo numero, mi imbarazzavo. Avevo un atteggiamento di sudditanza psicologica e artistica che lui non gradiva. Con Hugo Pratt, invece, c’era un cameratismo fraterno, anche se non lo chiamavo mai per nome, solo ‘maestro’. Lo mandava anche affanculo, ma chiamandolo sempre maestro” (ride, ndr). “Disegnare – conclude prima di salutarci – è come scrivere un racconto senza parole. Non sono un moralista, né un trasgressivo, ma un osservatore. La mia è un’arte dell’ambiguità, non della conquista”. Così, mentre il mondo si interroga su limiti, consensi e identità, Manara continua a tracciare corpi come si tracciano paesaggi interiori, con la lentezza di chi ha ancora qualcosa da vedere e da desiderare.