
Honoré Daumier, “Prima dell’udienza”, inchiostro e acquarello su carta, 1860-65
I giudici, la legge, il potere. Leggere Dostoevskij per capire Putin e l'amico Trump
Così i grandi romanzi giudiziari insegnano che in tribunale non conta solo la giustizia, ma anche la pubblicità. E i leader in cerca di legittimazione prendono nota
Cos’hanno in comune i summit Putin-Trump e un grande processo giudiziario? Tanto per cominciare: la spettacolarità, la spasmodica curiosità del pubblico per il dibattimento, per i retroscena, per l’esito. Tutti vorrebbero assistervi, anche se i posti sono limitati. Ne hanno letto per mesi sui giornali. Non vedono l’ora di sbirciare di persona i protagonisti. Il verdetto, il risultato effettivo del negoziato è secondario. Quasi si perde per strada. Per Trump l’importante è essere comunque, sempre, al centro del palcoscenico. The show must go on. Basta che sia great tv, come suole dire lui. Essere sotto i riflettori è la prova provata di essere al centro del mondo, il perno del mondo. Non gli daranno magari il Nobel per la pace. Ma un premio Oscar o un Emmy se lo meriterebbe. Così come per Putin contano i gesti, il riconoscimento di uno status di parità con l’altro potente vero. Alla faccia di chi gli vuole male, cioè dell’Europa e di Zelensky.
Quanto conta il pubblico ai summit internazionali e nelle aule di un tribunale. Gesti, applausi, curiosità per i retroscena
Il russo Dostoevskij dedica molte pagine dei Fratelli Karamazov, forse il più grande romanzo giudiziario di tutti i tempi, alle attese del pubblico, oltre che ai principali personaggi coinvolti e ai contenuti. Attenzione particolare viene dedicata agli addetti ai lavori: giudice, procuratore, avvocati difensori. Anche agli esperti presenti in veste di spettatori. “Gli avvocati da soli, giunti da tutte le parti, erano talmente numerosi che nessuno sapeva dove metterli, dal momento che tutti i biglietti erano stati già ceduti, mendicati, ricercati da tempo […] Io stesso ho visto una partizione approntata in fretta e furia, dietro il podio, dove venivano ammessi tutti i giuristi in arrivo, e si consideravano fortunati quelli che potevano stare in piedi, poiché, per far spazio, le sedie erano state rimosse […]”. Tutti pazzi per le star, gli attori principali. Come stessero al circo. “Pane e circo”, sbotta a un certo punto lo stesso imputato. Anche Dmitri (Mitja) Karamazov è un narcisista, un mattatore nato.
L’ultimo libro dei Karamazov è dominato dai giuristi e dai loro interventi. E’ significativamente intitolato dall’autore “Un errore giudiziario”. Otto dei quattordici capitoli sono dedicati alle arringhe. Il giudice è anonimo e incolore. Di lui ci viene detto che “è uomo colto e umano”, imbevuto delle “idee più moderne”. La cosa che gli preme di più è mostrarsi progressista. Del merito del caso e della sorte dell’imputato gli importa molto meno. La parte dedicata al pubblico accusatore, Ippolit Kirillovich – una figura minore, definita “mediocre” – è più lunga del celebre capitolo dedicato al “Grande inquisitore” che processa Gesù tornato in terra. Non vuole fare giustizia, vuole farsi pubblicità. Giunto alla fine della sua carriera, ha dei conti da regolare con un suo antico rivale e detrattore, che fa parte del collegio di difesa. E’ la sua ultima chance, se la gioca tutta. Dostoevskij è ancor meno tenero coi difensori. Anche loro sono trascinati dalla fregola di protagonismo. Non fanno un gran servizio al loro assistito. Il quale peraltro continua durante il processo a mettersi nei guai da solo. Loro, in cerca di applausi piuttosto che di giustizia, lo inguaiano ancora di più fabbricando “romanzi” psicologici. Puntano sulle attenuanti o sull’infermità mentale.
La buttano sulla grande politica. Il pubblico ministero, Ippolit Kirillovich, evoca un luogo classico della letteratura russa: la troika impazzita. “La nostra fatale troika corre a precipizio, e forse verso la rovina. Già da lungo tempo in tutta la Russia si tendono braccia e si levano voci per arrestare la folle e furiosa corsa. E se per adesso gli altri popoli si scostano ancora dalla troika galoppante a rotta di collo, non è forse per rispetto, come piaceva al poeta [cioè a Gogol’, ndr], ma semplicemente per orrore, prendetene nota. Per orrore, e forse anche per disgusto, e meno male ancora che si traggono da parte, perché potrebbero cessare di farlo, ed ergersi come una salda muraglia davanti alla fuggente visione, e arrestare la corsa pazzesca, per salvare se stessi, la cultura e la civiltà!”. “Abbiamo già sentito dall’Europa tali gridi di allarme. Cominciano già a risuonare intorno a noi. Non tentate, dunque, quei popoli, non aumentate il loro odio sempre crescente, con una sentenza che assolva un figlio assassino del proprio padre!”.
Il difensore Fetjukovic, principe del Foro, rovescia la frittata: “Non cercate di intimorirci con le vostre troike impazzite da cui tutte le nazioni si ritraggono disgustate. [La Russia] non è una troika fuori controllo, ma un magnifico carro che si dirige calmo e maestoso verso il suo obiettivo […]. Nelle vostre mani è il fato del mio cliente, nelle vostre mani il fato della giustizia russa. La difenderete, li salverete, dimostrerete che ci sono uomini che se ne curano, che è in buone mani!”. Applausi scroscianti, a scena aperta, commozione, lacrime. Esattamente come era stata applaudita l’arringa, il pezzo di bravura oratoria dell’accusa.
I lettori sanno già, a questo punto del romanzo, che Dmitri Karamazov non è colpevole dell’assassinio del padre. E’ stato un vecchio servo della casa, che nel frattempo si è impiccato. Dmitri sarà condannato ai lavori forzati in Siberia. A un certo punto nel romanzo viene prospettato anche un esito alternativo: che riesca a scappare in America assieme alla sua amata Grushenka, l’oggetto morboso della contesa con l’odioso padre, che la concupiva anche lui in concorrenza col figlio. Per combinazione, dovrebbero fuggire proprio in Alaska (allora ancora russa, e sarebbe stata ceduta agli Stati uniti, nel 1867, per appena 7,2 milioni di dollari, l’equivalente di circa 150 milioni di oggi, un pessimo affare per lo zar). Tutto quello che vorreste sapere sul processo Karamazov è nel dettagliatissimo saggio di Gary Rosenshield: Western Law, Russian Justice: Dostoevsky, the Jury Trial, and the Law (University of Wisconsin Press 2005).
Vladimir Putin ci tiene a far sapere che ha una laurea in legge. Conseguita all’Università di Leningrado. Conosce trucchi e cavilli del mestiere. A un forum con uomini d’affari e diplomatici, nel maggio scorso, alla domanda se un accordo di pace avrebbe potuto effettivamente riportare in Russia gli uomini d’affari occidentali, aveva risposto: “Fatemi vedere il contratto, ci darò una scorsa e vi dirò il da farsi”. C’è da giurare che ricorrerà a tutte le manovre, tutti i codicilli, quelli che gli americani chiamano gli small print (le scritte in piccolo del contratto), tutte le scuse, tutti gli espedienti possibili, leciti o illeciti, tutte le dilazioni e intimidazioni, tutti i giochi più spregiudicati, più sporchi per conseguire un verdetto per lui vantaggioso. Tirarla per le lunghe fa parte del gioco.
Donald Trump è un immobiliarista. Il padre Fred era un immobiliarista. Ha una laurea triennale in Business administration, ramo real estate (anche se la sua carriera accademica è sempre rimasta un po’ misteriosa, quanto la carriera di Putin nel Kgb). Si vanta di essere un mago nell’arte del Deal che in inglese significa affare vantaggioso e, al tempo stesso, compromesso, transazione, mediazione. La sua Grande strategia sono gli affari, a cominciare dagli affari immobiliari. Il suo pallino sono i do ut des, gli scambi di territori e proprietà come in un Monopoly su scala planetaria.
Ha mobilitato la guardia nazionale e precettato sotto il governo federale la polizia di Washington perché ai suoi occhi la capitale è un’area edilizia da risanare e valorizzare, ripulendola da “criminali sanguinari” e altri indesiderati che la rendono “non sicura”, “sporca” e “disgustosa”. Non sorprende che nei suoi sogni Gaza sia un’immensa area edificabile da trasformare nella “Riviera del Mediterraneo”. Per cominciare a occuparsi dell’Ucraina ha preteso innanzitutto che Kyiv mettesse nero su bianco le concessioni minerarie. Un commentatore americano si è chiesto, scherzosamente, se scambierebbe l’Alaska con la Crimea. Putin, che capisce i suoi polli, si era affrettato a fargli sapere che la sua rivendicazione sulla Groenlandia è comprensibile. Trump è uno che va al sodo, al solido, dalla stessa radice etimologica di soldo: non ha mai nascosto di aver inventato i dazi per fare cassa. Ha spesso avuto a che fare con la giustizia. Nella parte di chi deve difendersi nei tribunali, da giudici, pubblici accusatori, dagli avvocati della parte avversa (e pure dai propri, quando non lo soddisfano). La sua ossessione è sempre stata come aggirare legge e regole (a cominciare dai piani regolatori). La sua ossessione è vincere nei tribunali. Con ogni mezzo. Salvaguardare la propria immagine e i propri affari. Dell’Ucraina (e dell’Europa) non gliene potrebbe importare di meno.
Dostoevskij ce l’ha con le riforme della giustizia russa, una rinuncia alla tradizione e un modo per scimmiottare la giurisprudenza “occidentale”
I magistrati non hanno mai goduto di buona stampa. Né buona letteratura. Dostoevskij ce l’ha con loro anche per ragioni ideologiche. E’ contro le riforme della giustizia e del processo penale introdotte nel 1864, considerate ancora oggi dagli storici le uniche riforme zariste andate a buon fine. Lui ritiene che siano una rinuncia alla buona tradizione antica, una rinuncia insomma alla sovranità russa e un modo per scimmiottare malamente la giurisprudenza “occidentale”, in particolare il sistema all’americana. Non gli andava giù che introducessero ad esempio la giuria e il contraddittorio. Che cosa ne pensi della giustizia è evidente fin dalla prima pagina del romanzo, in cui si narra di un altro processo, vacuo e inutile, senza capo né coda, che per anni ha contrapposto il possidente Miusov al convento in cui il minore dei Karamazov, Aliosha, vorrebbe fare il novizio. Trattasi di confini, diritti di proprietà, di legname e di pesca. Quisquilie. All’epoca non si aveva idea di cosa fossero le terre rare.
Dostoevskij non ha alcuna fiducia in giudici e avvocati, non crede nella giustizia terrena. Non è un riformatore. Gli piace il passato. E’ uno slavofilo militante. L’unico tipo di giustizia che concepisce è quella divina, le uniche corti che gli vanno a genio, che garantiscono allo stesso tempo giustizia e compassione, sono i tribunali religiosi. E’ uno scrittore geniale e profondo, ma francamente reazionario, con estrema convinzione. Il suo è un umanesimo passatista, sciovinista. Stravede per la sua Russia. Tra Putin e l’occidente, sceglierebbe Putin.
Tutti i grandi scrittori dell’Ottocento ce l’hanno con i giudici. Nei romanzi di Stendhal, tra i moltissimi giudici, ce n’è uno solo giusto: il consigliere De Capitani che compare fugacemente nella Certosa di Parma, in una battuta del Principe che gli rimprovera di aver perorato “l’opinione ridicola” che l’imputato Fabrizio del Dongo meritasse tutt’al più un paio d’anni di fortezza. Gli altri sono tutti asserviti al potere, timorosi per la propria carriera, esitano solo perché il vento politico potrebbe cambiare. Il Guardasigilli è un buffone grottesco e vanitoso. E pure permaloso. Ne Il rosso e il nero, li irrita che l’imputato Julien (così come qualche decennio dopo Dmitri Karamazov), dichiari di meritare la condanna. Come Dostoevskij, Stendhal non è particolarmente progressista. Non crede affatto nella giustizia, sempre arbitraria, lenta, complicata. L’ottocentesco Manzoni la dice tutta col nome che affibbia all’avvocato: Azzeccagarbugli. Da buon cattolico convertito affida i suoi personaggi alla Provvidenza, non ai giudici. Il processo del novecentesco Kafka è un incubo epocale…
Peggio che andar di notte se si va più indietro. La letteratura del Medioevo europeo è tutto un j’accuse, una derisione continua e feroce nei loro confronti. Il primo grande romanzo europeo, Le Roman de Renart, declinato in molte lingue e molte varianti, mette in scena un procedimento giudiziario contro la volpe alla corte di Re Leone. L’avvocato della volpe è un imbroglione, il gatto. Riesce ad abbindolare tutti, a cominciare dal giudice. La volpe è un furbone di tre cotte, un vero e proprio farabutto, uno stupratore assassino. Ma va a lei (sarebbe più corretto dire lui) la simpatia dei lettori. Per l’astuzia, ma soprattutto per il modo in cui resiste al potere, alla prepotenza feudale, al principio, immutabile nella storia europea, da Giustiniano a Napoleone, per cui quod principi placuit legis habet vigorem, quel che piace al principe è legge. Nella duecentesca La farce de Maitre Pathelin, il protagonista è un avvocato che si approfitta ingegnosamente sia dei suoi clienti che dei loro avversari in giudizio. Pathelin si chiama l’avvocato imbroglione del Quart Livre di Rabelais. Esilarante la documentazione raccolta da Agnès Aguer, L’Avocat dans la littérature du Moyen Âge et de la Renaissance (L’Harmattan 2010). Dannati giudici, dannati procuratori, dannati avvocati. Ma ancor più dannati quelli che fanno finta di mediare, senza averne i titoli. Non so voi lettori, ma io proprio non riesco a immaginare Trump nel ruolo del mediatore, del giudice conciliatore.
Quello dell’arbitro, del mediatore, è un ruolo prestigioso, ma scomodo. Rischia di inimicarsi tutti quanti. L’Italia ha un’antica tradizione di arbitrato giudiziario ed extragiudiziale. Oltre che di diffidenza verso giudici e tribunali. E’ un fatto statistico. Nel 2014, ad esempio, sono state avviate 3.936.000 cause civili. Per le cause penali, il numero di procedimenti pendenti è sostanzialmente stabile, con circa 1.500.000 procedimenti all’anno. Oltre alle lungaggini insostenibili e all’azzardo per cui il giudizio in un’istanza viene rovesciato in quelle successive, almeno metà dei ricorrenti e degli imputati ne usciranno insoddisfatti, malediranno giudici, avvocati e tribunali. Hai voglia a difenderli di fronte all’opinione pubblica!
Putin ha in pugno i suoi giudici, situazione comune a mezzo mondo. In Cina si vantavano per le condanne a oltre il 90 per cento degli imputati
Putin non ha mai avuto problemi con i suoi giudici e i suoi tribunali. Li ha in pugno. Li nomina lui. E’ lui il giudice supremo. Da oltre un quarto di secolo. E’ una condizione comune a più di mezzo mondo. Quando ero in Cina il massimo vanto degli organismi giudiziari era che oltre il 90 per cento degli imputati venissero condannati. L’indipendenza della magistratura dal potere politico è un concetto raro anche in Europa. L’Italia è un’eccezione. Mi piacerebbe che restasse tale.
C’è chi sostiene che proprio la formazione giuridica di Putin abbia a che fare con la sua ossessione quasi patologica per le apparenze legali. Per restare in sella oltre il limite dei due mandati da presidente aveva inventato di sana pianta il marchingegno di cedere provvisoriamente la presidenza al premier Medvedev, per riprendersela subito dopo. E’ un fanatico delle apparenze di legalità. Ha cambiato la Costituzione e ha sottoposto le modifiche a un referendum plebiscitario. Indice regolarmente elezioni ogni sei anni, e le vince alla grande (è stato rieletto ben sei volte). Anche perché non ha competitori, e se qualcuno come Navalny ci prova, lo toglie di torno. C’è chi ha detto: un giurista spietato sulla sedia del dittatore.
Per Trump le cose sono un pochino più complicate. Che abbia una gran voglia di cambiare la Costituzione (a cominciare dal divieto di fare più di due mandati presidenziali), non è certo un mistero. E neppure che gli stiano stretti i contrappesi istituzionali ai già grandissimi poteri presidenziali. La sua nemesi è sempre stata il potere dei giudici, che gli bocciano un ordine esecutivo dopo l’altro (già all’epoca del suo primo mandato, ma ancora di più in questo inizio di ritorno alla Casa bianca). Finora le ha sfangate tutte, o quasi. Era già riuscito, prima ancora di essere rieletto presidente, a sopravvivere a un’infinità di processi, e pure a un paio di tentativi di impeachment per aver promosso l’assalto al Capitol Hill del 6 gennaio 2021, all’indomani della sconfitta a vantaggio di Biden. I democratici non avevano i voti, l’impeachment non è una procedura giudiziaria, è una procedura politica, il verdetto dipende dall’avere o meno una maggioranza in Congresso. Per i guai giudiziari di chi governa, vale in genere la massima: quel che non ammazza, ingrassa.
Un attacco di Trump diretto a un giudice gli è stato rimproverato anche dai giudici della Corte suprema che erano stati nominati da lui
Dalla sua ha stavolta una maggioranza alla Corte suprema, grazie ai giudici da lui nominati. Sono ora sei i giudici ritenuti “conservatori”, contro i tre ritenuti “progressisti”. Gli hanno dato ragione sinora su quasi tutte le contese che lo contrapponevano ai giudici federali o locali. Tranne il caso di un suo attacco diretto a un giudice, che gli è stato rimproverato anche dai giudici della Corte suprema che erano stati nominati da lui. Anche in America la fedeltà di corporazione prevale sulla gratitudine politica. Se attacchi scompostamente un giudice rischi di sollevarteli contro tutti. I giudici e i procuratori americani vengono eletti stato per stato, oppure (nel caso di incarichi federali) vengono nominati dal presidente. Sono politicamente di parte per definizione. Nella maggioranza dei casi si candidano come democratici o come repubblicani. Per averli dalla sua Trump deve aspettare che scada il loro mandato, o sperare che gli elettori scelgano quelli dalla sua parte. Nel frattempo è costretto a limitare le sue vendette alle nomine che spettano all’esecutivo.
Qualche giudice ha contestato i suoi dazi. Imporli o meno rientrerebbe nelle prerogative del Congresso, non del presidente. A meno che ci sia un’emergenza che riguarda la sicurezza nazionale. E su questo Corte suprema e Congresso sono orientati a dare ragione a lui. Non a caso, per tutti gli ordini esecutivi che sono contestati dai giudici (dai dazi, alla guerra, agli immigrati clandestini, all’ordine pubblico nelle grandi città), Trump ha invocato stati di emergenza.
Lo aveva fatto Hitler nella Germania del 1933, dopo l’incendio del Reichstag. La Legge per la protezione del popolo e dello stato (Reichstagsbrandverordnung) sospendeva tutte le libertà civili, consentiva al governo del cancelliere di adottare ogni misura ritenesse opportuna per la sicurezza, senza passare per il Parlamento. Il bello è che gliela votò il Parlamento, compreso il centro moderato e cattolico che di lì a poco ne avrebbe fatto le spese. In quel momento aveva solo una maggioranza relativa, di un terzo circa dei voti e dei seggi. Era per nomina presidenziale a capo di un governo in cui i nazisti si trovavano in minoranza. Ma poi si liberò degli alleati in quattro e quattr’otto. Fu quel decreto a consentirgli di seppellire la Costituzione e la democrazia di Weimar e instaurare il totalitarismo nazista.
Per ironia della storia, giudici e costituzionalisti tedeschi non rappresentarono mai un problema per Hitler. Non fecero nemmeno finta di opporsi ai decreti del Terzo Reich. Erano coccolati, beneficati dal regime, che si guardò sempre bene dal metterseli contro. Non avrebbe mai proposto cose divisive come la separazione delle carriere. I magistrati tedeschi accolsero con entusiasmo tutte le misure liberticide, tutte le riforme amministrative più odiose e inique, a cominciare da quella che escludeva gli ebrei dalle carriere giuridiche. Mostrarono tanto zelo che a Norimberga i giuristi furono imputati in un processo separato a loro carico, al pari dei medici assassini e dei massimi responsabili politici nazisti. Nel processo, svoltosi dal 5 marzo al 4 dicembre 1947, dieci giudici furono condannati, quattro assolti. Diversi si erano suicidati prima ancora di venire processati. Il generale americano Telford Taylor, procuratore capo del tribunale militare internazionale, osservò che il Terzo Reich “non poteva vivere conformemente alla legge, e la legge non poteva vivere senza di essa”. Solo qualche avvocato aveva osato mettersi di traverso. Se li tolsero di torno ammazzandoli o chiudendoli in campo di concentramento. L’ideologo del nazismo, Alfred Rosenberg, già nel 1930 aveva sentenziato: “Giusto è quello che gli ariani considerano giusto; ingiusto quello che rifiutano”. Il guardasigilli Frick sosteneva: “E’ giusto ciò che è utile al popolo tedesco; ingiusto ciò che gli nuoce”. Il nuovo codice penale introdotto da Hitler nel 1933, appena divenuto cancelliere, sancisce che “va punito chiunque commette un atto che la legge dichiara punibile” , oppure un atto che “il solido sentimento del popolo ritiene debba essere punito”. Carl Schmitt, passato anche dopo la fine del nazismo come una delle menti più acute della giurisprudenza tedesca, inventò l’assioma per cui “è il Führer a fare la Legge”, perché rappresenta la volontà del popolo. Tradotto in termini di attualità, significa: il fatto che siano rappresentanti del popolo (mediante elezioni o altro) li mette al di sopra di qualsiasi legge o Costituzione.
Putin ha l’ossessione di dare una forma giuridica, un riconoscimento legale, a quanto ottenuto con la violenza in Ucraina
Un campo in cui sia Putin che Trump hanno discrezione assoluta è la politica estera. L’insistenza sul riconoscimento formale dei territori ucraini annessi (da anni, come la Crimea, o conquistati con l’“operazione militare speciale”, o magari di quelli ancora da conquistare), non è un fisima. Non è una postura negoziale, non è solo chiedere il massimo per ottenere più che può. Rientra nell’ossessione di dare una forma giuridica, un riconoscimento internazionale, legale, a quanto ottenuto con la violenza. Non demorderà finché il riconoscimento non venga messo nero su bianco. La trappola per Zelensky nell’ultimo incontro alla Casa bianca (con tanti eccellenti testimoni europei) non ha assunto la forma della teatrale umiliazione del marzo scorso. Ha assunto le sembianze di una cartina in cui si ipotizzano gli scambi (si fa per dire) di territori. Carte geografiche e piantine catastali sono un’idea fissa condivisa da Putin e Trump. Non a caso, in una giornata frenetica, densissima di colloqui, con gli amici europei convocati a Washington, contatti vari con Putin, il presidente Usa ha trovato il tempo di postare sul suo social una cartina con la rimappatura dei collegi elettorali in Texas.
Ecco in che mani siamo. E resteremo, in tutta apparenza, per un bel po’. Con tanti e tali volenterosi avvocati, procuratori, giudici e mediatori, ci sarebbe solo da augurarsi: che Dio ce la mandi buona!