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Folli regie per Donizetti e Händel al Festival di Salisburgo

Alberto Mattioli

Due regie puntano su effetti visivi estremi – piattaforme rotanti in Maria Stuarda, spogliarsi e rivestirsi in Giulio Cesare – ma il risultato è caotico e spesso privo di senso, nonostante alcune buone prove musicali. Opere che sono tutto un ruotare e passeggiare, uno spogliarsi e rivestirsi

Due nuove produzioni del Festival di Salisburgo di quest’estate rischiano di dare argomenti a chi sbraita contro le malefatte dei registi. Quella di Maria Stuarda di Donizetti è una delle più folli che io abbia mai visto. In scena, ci sono soltanto due enormi piattaforme rotonde e inclinate che girano su loro stesse e, contemporaneamente, anche all’interno, piatti rotanti che ricordano una vecchia attrazione del luna park. Su una, Elisabetta; sull’altra, Stuarda. Entrambe non ne scendono mai ma non stanno nemmeno mai ferme, perché continuamente impegnate a camminare in senso contrario alla rotazione e sempre accompagnate da ballerini-mimi egualmente peripatetici. La recitazione è quella stereotipata dei cantanti lirici standard e il coro è sistemato sullo sfondo, a distanze siderali: il regista, Ulrich Rasche, come tutti quelli che vengono dalla prosa non ha la minima idea di come muoverlo, quindi lo lascia fermo. Seguono a cena discussioni sulla simbologia, con ipotesi molto basiche, prêt-à-penser: la vita è una ruota che gira? Il potere è un meccanismo inesorabile? Ci stanno prendendo per il beep? Boh. Di certo, c’è che questo continuo giramento sul palco ne produce presto in platea un altro, più intimo e personale, tanto più che a parte tutto questo passeggiare e ruotare, ruotare e passeggiare non succede molto, e in ogni caso nulla di significativo.


In questo involontario teatro dell’assurdo, fanno del loro meglio gli unici che sappiano qualcosa di Donizetti, cioè il direttore, Antonello Manacorda, puntualissimo nonostante gli inevitabili problemi di coordinamento con la scena, e la protagonista, la bravissima Lisette Oropesa che, al netto di una voce forse un po’ piccola per il Großes Festspielhaus e qualche portamento di troppo, canta divinamente bene. Ma Leicester, Bekhzod Davronov, è fragilissimo; Talbot, Aleksei Kulagin, sembra la caricatura dell’orco delle favole e, soprattutto, è un disastro Elisabetta, perché Kate Lindsey non è semplicemente in grado di eseguire la parte, peraltro vistosamente tagliata, e compensa recitando come Crudelia De Mon però vestita da Frau Blücher di Frankenstein Junior (qui però i nitriti sono home made). Di più insensato di questa serata c’è solo che il pubblico la applauda, ma si sa che sopra le Alpi questo repertorio non l’hanno mai capito, ed evidentemente perseverano.


Invece Dmitri Cerniakov è un grande regista, fin dai tempi della Traviata “delle zucchine” che tanto scandalizzò le care salme della Scala. Ma quando un grande regista sbaglia uno spettacolo, lo sbaglia alla grande, com’è il caso di questo Giulio Cesare di Händel ambientato in un bunker sotterraneo mentre è in corso in qualche bombardamento. Per carità: lo si può mettere ovunque, anche su Marte, purché lo spostamento spazio-temporale abbia un senso. Qui, duole dirlo, non l’ha, né c’è un’idea forte che regga lo spettacolo, a parte un overacting che consiste soprattutto nello spogliarsi e rivestirsi continuamente: per quattro ore, un po’ poco. Peccato perché la parte musicale, a parte una Cornelia impossibile, non sarebbe male, a partire dalla direzione animosa di Emmanuelle Haïm con il suo Concert d’Astrée. Ci sono una buona Cleopatra, Olga Kulchynska, un eccellente Sesto, il nostro Federico Fiorio, e un notevole Tolomeo, Yuriy Mynenko. In questa sagra dei controtenori, Christophe Dumaux, che è “il” Tolomeo dei nostri giorni, ascoltato almeno dieci volte, ha deciso di passare al protagonista: canta sempre bene (notevole la messa di voce all’attacco di “Aure, deh, per pietà”), ma come interprete funziona meglio come faraone psicopatico che come Cesare un po’ irrisolto. 

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