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l'estate
I matrimoni d'agosto e l'illusione di divertirsi. Ci caschiamo ogni volta
Tutte le volte pensiamo: "In fondo è un motivo per fare festa, non sarà così caldo". Ci si fa coraggio insomma. Ma poi arriva quella mattina con trentatré gradi e inizi a pensare a qualsiasi cosa per scappare
Si guarda ai matrimoni d’agosto come si guarda a quelle brevi traversate sulla sabbia a piedi nudi in un pomeriggio estivo: sottovalutandoli. Gli amici si rincontrano e le parentele si rinsaldano. Del resto, il significato antropologico delle cerimonie è proprio questo: rafforzare i legami attraverso delle norme codificate delle quali ci si fa testimoni. In questo modo si sottrae l’avvenimento, bello o brutto che sia, alla sfera privata facendolo diventare pubblico: si rende noto alla propria comunità di riferimento il passaggio di stato di un individuo o, appunto, di una coppia. Seppure il ruolo di ordinamento sociale rivestito dai matrimoni sia andato via via diminuendo, dato che nelle società industrializzate esistono anche altri tipi di legami sociali – come la condivisione di un mutuo –, il matrimonio conserva ancora la dignità religiosa e istituzionale derivante dalla celebrazione di un culto, di un rito. Chiaramente tutto ciò che ha a che fare con la ritualità lascia poco spazio alla libera scelta dell’individuo, ecco perché, c’è da credere, si partecipa ai matrimoni ad agosto. “In fondo è un motivo per fare festa”, ci si dice, “non sarà così caldo, e poi è l’occasione perfetta per indossare l’abito di lino che ho comprato la scorsa estate e che ho messo solo due volte”. “Rivedrò il tale o la tale che non incontro da anni, chissà come stanno”.
Come dire, ci si fa coraggio. Poi il giorno del matrimonio arriva e alle nove di mattina ci sono già trentatré gradi. Il tabellone della farmacia chiaramente ne segna quarantatré, ma a quello non si dà peso, si pensa sempre che il termometro sia programmato male, che lì il sole batta troppo o troppo a lungo, che sia rimasto fermo al 2003. Si pensa a qualunque cosa pur di preservare la salute mentale quando si sa di dover passare tutto il giorno fuori con quella calura, tipo a un mancato aggiornamento tra temperatura solare e temperatura legale. Chiaramente la macchina non è stata lavata e ci si avvia al grande evento con delle imbarazzanti deiezioni di piccione sul tettuccio e, quando si è sfortunati, anche sul cofano. Però, se si è favoriti dalla sorte, in massimo trenta minuti si arriva a destinazione, destinazione solitamente rappresentata da una cascina del Settecento con annessa chiesa del Cinquecento, il tutto costruito in una tenuta di alberi tanto vetusti da conservare nei tronchi schegge di bombe napoleoniche. “Che bello”, ci si dice, “ne è valsa la pena”.
La chiesa è più bella da fuori, ma almeno dentro si sta freschi. Degli sposi ancora nessuna traccia, ma ritrovando alcune facce amiche ci si saluta in quella maniera un po’ imbarazzata in parte causata dal timore di risultare ridicoli con tutta quell’eleganza addosso. Timore che dovrebbero avere, di certo non per eccesso di eleganza, coloro che decidono di indossare delle scarpe da ginnastica bianche – chiamarle sneakers non cambia la sostanza. Entra lo sposo e a vederlo ci si commuove già un po’. Poi è il turno della sposa e non si può fare a meno di notare quanto sia bella. Se la cerimonia è celebrata da un chierico si va più sul sicuro, perché avranno pure le loro colpe, ma quanto a performance ritualistica non hanno pari. Poi si esce e si attende l’uscita dei novelli coniugi, si tira il riso confezionato in involucri color pastello distribuiti dalla wedding planner, si ride molto e ci si avvia a piedi verso il ristorante – che se si continua a essere fortunati è a pochi passi di distanza.
Gli sposi finiscono in una dimensione sconosciuta, compariranno solo ore dopo. Gli invitati sono lasciati liberi di socializzare. In bocca al lupo. Con tutte quelle camicie e quei tacchi è difficile non apparire comici quando ci si avvicina affamati ai tavoli dei buffet. La natura esplode. Il prosecco col succo d’arancia stimola la simpatia e in un quarto d’ora si mangia con la stessa foga con cui l’Orlando cercava di ottenere l’amore di Angelica. Ma nessuno si rovina l’appetito perché i pranzi luculliani non si fanno più. Ora la regola generale è cercare di mangiare poco e infatti raramente si vedono visi smunti in giro.
Se non si trova un posto all’ombra e ben ventilato si suda vigorosamente. “Che bello rivederti, come stai? Vivi ancora lì o là o qui?”. Si dice di tutto per portare a casa la pelle e si ascolta di tutto pur di farla portare a casa agli altri.
Gli sposi tornano sorridenti e sollevati. Si guarda qual è il proprio tavolo e vi ci si dirige sperando di sedersi accanto a dei convitati simpatici. Le porzioni sono piccole ma belle. Qualcuno fa un discorso, gli amici e le amiche degli sposi raccontano quanto l’amore di cui sono stati testimoni sia autentico. A volte c’è una persona deputata a intrattenere la sala, spesso malino. Arriva l’ultimo piatto, poi la torta. I camerieri non vedono l’ora di sparecchiare. La musica si alza, compaiono i primi trenini, si balla e non si è mai abbastanza grati per l’open bar. Però nel momento in cui inizia a decollare, la festa finisce. Peccato, proprio ora che ci si iniziava a divertire.