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a teatro
Travolti da un insolito Rossini con l'italiana in Algeri che è una drag queen
Un allestimento pop e provocatorio trasforma l’opera in una satira brillante tra tiranni kitsch e ribellioni glitter. Drag queen, gag teatrali e simboli queer accendono una rilettura sorprendente e attualissima
Alla fine, è anche sano pragmatismo teatrale. Dal Rossini Opera Festival ti chiedono di mettere in scena L’italiana in Algeri con una marcantonia alta un metro e 80 che a Pesaro ha quasi sempre cantato en travesti, quindi per tutti è Tancredi e Calbo e Malcolm e Arsace, per tacere di Falliero e Ottone e Sigismondo ed Eduardo, insomma le parti da “uoma” tanto amate dal Gioacigno. E tu che fai? T’inventi un’Isabella drag queen, che seduce quel gran pezzo di Mustafà, qui capriccioso signore e padrone di qualche democratura mediorientale. La regista è Rosetta Cucchi, il mezzosoprano Daniela Barcellona, il basso Giorgi Manoshvili e il terzetto trionfa nella nuova produzione del Rof. Lo spettacolo inizia fuori dal teatro, quando tra la folla in fila per entrare irrompe un pulmino carico di drag queen glitteratissime (quattro e “vere”, arruolate da Cucchi sul campo del lustrino e dello zatterone), prontamente arrestate dagli sbirri del despota. Il resto viene di conseguenza, in un’Algeri supercafonal dove Mustafà esibisce dovizie e capricci da nouveau riche, Taddeo è il greve impresario dell’Isabella tour e Lindoro ha incautamente firmato un contratto capestro da stagista o altro schiavo e quindi si ritrova a spignattare in cucina. Elvira, la desperate housewife di Mustafà, inizia in pigiamino di felpa anti-sesso ma, dopo aver finalmente imparato a fare la donna da un uomo travestito, finisce in tenuta fetish con stivaloni e frustino. La produzione è la festa della costumista, Claudia Pernigotti, che spinge il kitsch fino a vette dove la mancanza di gusto ne rivela uno finissimo: in ogni caso, Barcellona con un outfit fra Luigi XIV e Daniela Santanchè resterà memorabile.
Cucchi è molto brava a raccontare un mondo volgare senza diventarlo: le gag funzionano perfettamente, e se alle volte viene il dubbio che si strafaccia un po’ troppo, non bisogna dimenticare che per l’Italiana resta valida in saecula saeculorum la definizione di Stendhal: “une folie organisée et complète”, prendi su e porta ad Algeri. Quando poi arriva il gran rondò patriottico, Isabella compare vestita da uomo, mentre sullo schermo scorrono le immagini di Stonewall e di altre hit della liberazione sessuale. Insomma, c’è proprio tutto, anche il Gioachino pride, e chissà se qualche fratello d’Italia o fardello simile non ne approfitti per far polemica, nelle Marche sono in campagna elettorale. In sala, in ogni caso, nemmeno un “povero Rossini!”: soltanto molte risate.
Sul fronte musicale le cose vanno meno bene. Dmitry Korchak è senz’altro preferibile come tenore che come direttore, sempre pesante, limitato nelle dinamiche e con la tendenza a perdersi il palcoscenico com’è (è un cantante, si pensava, almeno accompagnerà bene: macché). Il tenore che invece canta, Josh Lovell, litiga con le note di Lindoro. Misha Karia, Taddeo, ha un apprezzabile vocione, ma per fare il buffo ci vuole altro sale nel fraseggio e nell’accento. Invece sono buoni i comprimari (specie Haly, Gurgen Baveyan) e, come si diceva, eccellenti i protagonisti. Dopo le Amneris, si credeva di trovare Barcellona in forma meno rossiniana, e invece continua a sgranare agilità con perfetta frenesia, e come attrice è deliziosamente autoironica: bravissima. Quanto a Manoshvili, bisogna tornare ai tempi di Ramey per trovare una voce di basso così piena, corposa, morbida nelle agilità e dilagante negli acuti. Il suo “Pappataci Mustafà!” esplode come una bomba di velluto nelle nostre orecchie grate, e siamo felici come quarant’anni fa alla Fenice o come quei “Rossiniste 1815” (sempre Stendhal) che ridiventiamo ogni volta che L’italiana in Algeri ci travolge.