Quest’anno, il divo dei festival nazionali fra cui quello di Taormina è stato Michael Douglas (foto Ansa) 

Alla fiera dei divi

Le star più stagionate animano i festival estivi, tra nostalgia e un cinema che si è fatto piccolo e riflessivo

Fabiana Giacomotti

Volti con sempre meno copioni, ma che sono ancora abbastanza famosi perché la carta stampata dedichi loro dei titoli se si concedono un “cameo”

Arriva l’estate, con lei i festival cinematografici e le sagre con i loro programmi e richiami, e noi ogni anno siamo qui a scrivere la stessa cosa, e cioè quanto siano utili all’affermazione di queste manifestazioni non tanto gli altri nascenti, cioè quelli che di cui bisogna sempre spiegare il perché e il percome e in tempi in cui pochi leggono oltre la prima riga di un post dar loro spazio sarebbe un rischio (oltre le tre righe, non a caso, ormai su Instagram compare  la scritta “meno” che permette di cancellarne due), quanto le star in disarmo. I volti notissimi ai quali l’agente manda a casa sempre meno copioni, ma che sono ancora abbastanza famosi perché la carta stampata dedichi loro dei titoli se per caso si concedono un “cameo”, scritto all’inglese anche sui giornali popolari che però in Italia usa definire “famigliari”, qui siamo tutti possidenti con le terre al sole, e gli inviati degli stessi giornali accorrano ai festival di seconda o terza fila, che è invece il segno inequivocabile dell’anagrafica dei lettori di giornali e anche del motivo per cui leggano questi articoli: per osservare le foto, delle dichiarazioni in genere se ne infischiano, e rassicurarsi di essere invecchiati meglio della celebrità, “con tutti quei ritocchini”. Lo scorso anno, la star della stagione estiva fu Sharon Stone: risalì la penisola da Taormina a Torino seguita dagli sguardi social delle moltitudini che, dopo averne letto per l’ennesima volta il quoziente intellettivo che dopo quarant’anni tutti conoscono a memoria perché non c’è articolo che non lo ricordi nell’incipit, tutti osservavano per l’imponente stazza; con l’età alle donne cambia la struttura toracica, è un dato di natura contro il quale non si può lottare, purtroppo, ma per tutte era un conforto verificare che non sfuggisse nemmeno lei al destino delle giacche che non si chiudono più. 


Quest’anno, il divo dei festival nazionali è stato Michael Douglas, ormai giunto a quell’età in cui tutti ti definiscono fragile, ma ancora brillante abbastanza da ironizzare sul sentimento di rivalsa che l’ha spinto a diventare attore, essere figli di quel personaggio formidabile che fu Kirk dev’essere stato arduo, e di scusarsi per il suo Paese, cioè per aver eletto un presidente come Donald Trump, che è ormai quello che fanno tutti gli statunitensi che incontri, dimostrando che la sindrome degli italiani tutti antifascisti dopo la Seconda Guerra Mondiale tende a mettere radici ovunque. Raccontano gli uffici comunicazione che il festival estivo, italiano o francese ma comunque nel Mediterraneo, risulti sempre gradito alle star d’Oltreoceano anche per l’ovvio motivo che da qualche parte la stagione calda si debba pure trascorrerla, senza aggiungere, ma è sottinteso, che farlo in un albergo con uso di spa immergendosi in un bagno di folla con i cellulari sguainati sia ancora più piacevole, per cui è difficile che un invito all inclusive venga rifiutato. 

 

Helen Mirren che ormai si è data all’agricoltura in Puglia e si concede il lusso di farsi dare della vecchiaccia negli spot, ecco una prova di carattere

  
Ultimamente si sta vedendo molto in giro anche Catherine Deneuve, che però rappresenta un caso diverso, diciamo una terza via fra il divismo dei bei tempi andati e quello vero, nuovo, ma che richiede preparazione e impegno e anche la constatazione che non tutti gli attori di successo abbiano alle spalle uno stylist che si fa pagare dai brand per prendere in prestito gli abiti di collezione e che in genere si trova nei festival del cinema vero, vedi Locarno dove, due giorni fa, è stata premiata l’attrice-simbolo della diaspora artistica iraniana di oggi, Golshifteh Farahani, che è salita sul palco e non ha detto una sola parola banale. Deneuve gira e produce ancora, anche film mediocri  come il nuovo “Spirit World. La festa delle lanterne”, dove interpreta un fantasma, ma soprattutto, lei con poche altre, tipo Helen Mirren che ormai si è data all’agricoltura in Puglia e si concede il lusso di farsi dare della vecchiaccia negli spot, ecco una prova di carattere, è riuscita a raggiungere e soprattutto a mantenere quello status di intoccabile simbolo, di “icona” come hanno imparato a digitare gli influencer, che le permette di fare un po’ come le pare, anche di indossare una maglia sblusante sopra la gonna a pieghe e di apparire per quella che è, e cioè un’ottantenne abbondantemente fuori forma e con i capelli in disordine che però gli stilisti smaniano di far accomodare in prima fila alle loro sfilate, a dimostrazione che, quando la fama è inconfutabile e i quarti di nobiltà creativa ineccepibili, nel caso specifico essere stata l’amica più cara di Yves Saint Laurent, la moda diventa inclusiva sul serio. 

  

Nessun like potrà mai sostituire la gente che ti chiede un selfie per strada, cosa che accade di continuo ai divi veri nelle kermesse della litoranea

  
I festival della costiera e delle isole sono la migliore dimostrazione che i social e TikTok non hanno cambiato del tutto la nostra percezione del divismo, non si spiegherebbe altrimenti perché tale Martina Ceretti, nonostante i centomila e rotti follower, abbia accettato di usare metodi poco ortodossi, cioè l’arma dello sputtanamento e del ricatto ai danni di un attore di fama internazionale, per realizzare il sogno di “diventare famosa”: anche lei in fondo sa, o forse sapeva perché dopo la denuncia di Raoul Bova per tentata estorsione può scordarsi la “carriera nel mondo dello spettacolo” e, in attesa degli esiti dell’inchiesta, ha chiuso l’account, forse la prima decisione saggia dei suoi ventitré anni di vita, che le community non sono una cosa reale e che, per quanti contratti tu possa siglare con le aziende boccalone per farti sponsorizzare i post, nessun like potrà mai sostituire la gente che ti chiede un selfie per strada, cosa che invece accade di continuo ai divi veri e stagionati nelle kermesse della litoranea dove il sindaco e l’assessore alla cultura si mettono in ghingheri con la fascia, accompagnati dalle mogli con la piega di fresco per la “foto di rito”. I festival di provincia hanno lo stesso sapore rassicurante dei magazine famigliari di cui scrivevo all’inizio, che compri due volte all’anno per l’oroscopo e per capire se esista davvero gente che vuole ancora leggere di quando Marina Occhiena abbandonò i Ricchi e Poveri e che forse non era per amore, insomma assomigliano a me che da mesi vado cercando nei mercatini i baby doll in nylon degli Anni Sessanta, con quei colorini improbabili, giallino, verde acqua, perché mi è scoppiata una micidiale nostalgia delle estati di quegli anni lì e, sebbene in casa mia fossero vietatissimi, non sai che sono infiammabiliiii, mi è sempre piaciuto vederli nei film e il sogno sarebbe trovare un completo camicia-vestaglia come quello che Gina Lollobrigida indossa in “Torna a settembre” mentre dice a Rock Hudson di andare sulla terrazza e buttarsi di sotto. 


Mentre tanti di noi cercano tracce di vita trascorsa nei festival di seconda fascia, è però ovvio che il mondo sia cambiato abbastanza da rendere del tutto plausibile la celebre riga che Billy Wilder scrisse nel 1950 per Gloria Swanson in “Viale del tramonto” sulle “pictures that got small” mentre lei, diva del muto dimenticata, è “still big”, antitesi geniale che noi traduciamo malamente nel “cinema che è diventato piccolo” e che invece ci offre utili indicazioni su quello che è successo da quando lo schermo del cinema si è frammentato dapprima in milioni di apparecchi televisivi e poi in miliardi di smartphone che tutti tendiamo a non usare come telecamera, ma come specchio, anche poco reale, vista la quantità di filtri, aggiustatine e modifiche che applichiamo non solo a noi stessi, esattamente come i divi di cui deploriamo il ricorso al chirurgo ma senza la stessa fatica, lo stesso dolore e va da sé gli stessi soldi, ma anche al nostro piccolo mondo: via la brutta sdraio che abbiamo inquadrato perché eravamo abbagliati dalla luce, via la cosciotta del signore in costume che è passato nel momento dello scatto, il filtro “lazo” è fatto apposta. Non sarà un caso se l’espressione più usata dai conferenzieri di grido degli ultimi anni è di non perdersi nei dettagli ma di guardare alla “broader picture”, l’immagine più grande, cioè alla questione in prospettiva e che significa anche film, fotografia, e che è appunto quanto intendeva Wilder pur non immaginando che qualche decennio dopo avremmo visto le “picture” nel nostro letto la sera su un apparecchietto grande come il nostro palmo che ci piomba sulla faccia quando ci addormentiamo. 
Invece, oltre a leggere la prima riga dei post e a commentare gli articoli dal titolo, spesso perché non possediamo l’abbonamento per leggerlo per intero e comunque non ci interesserebbe arrivare fino in fondo, siamo furbi abbastanza da giudicare un libro dalla copertina, geniale vecchia rubrica del “Financial Times”, ci basta osservare il mondo dal nostro schermo e sul quale inquadriamo, in genere, piccole cose, dettagli senza importanza perché è noto che se li porti in primo piano diventano un’altra cosa, acquistano.  

  

Nel 1929 avevamo “Queen Kelly” di Eric von Stroheim con Gloria Swanson, oggi la signorina Ceretti che affida speranze e ambizioni a Corona

   
Nel frattempo, l’immagine di “Queen Kelly”, il leggendario capolavoro incompiuto del 1929 di Eric von Stroheim che Wilder usò per la scena della “picture” e dove la Swanson figurava ventenne e bellissima, con una gran parrucca di capelli neri, verrà proiettato alla serata di pre-apertura della Mostra del Cinema di Venezia il prossimo 26 agosto, oh gioia, in una nuova versione restaurata e con materiali ritrovati dallo stesso Dennis Doros della Milestone Film&Video che nel 1985 ne aveva realizzato una prima ricostruzione e che oggi, grazie a ricerche supplementari, all’accesso ai nitrati originali e alle tecniche del restauro digitale, ne ha creato una nuova reinterpretazione, finale incluso desunto dalla sceneggiatura originale, accompagnandola  a una nuova colonna sonora originale, firmata da Eli Denson e che sarà eseguita dal vivo dal Syntax Ensemble. I dettagli correlati al film, altrettanto leggendari, dicono che “Queen Kelly” avrebbe dovuto essere l’apogeo della carriera della Swanson, un film indipendente e rivoluzionario finanziato da lei stessa e dal suo amante di quegli anni, Joseph P.Kennedy. Invece, venne bloccato a metà della lavorazione per una di quelle distorsioni del divismo, quello “big” di un tempo e quello parecchio “small” di oggi, che al tempo prese la forma di von Stroheim, regista di certo geniale, ma anche cinico, ossessionato dal sesso e malato di grandeiur, si era aggiunto la particella nobiliare al cognome, e oggi dei vari Fabrizio Corona, sì lo so che il salto verso il basso è vertiginoso ma la dinamica identica a quella della signorina Ceretti e del suo produttore e diffusore di contenuti, tal Federico Monzino che c’è da non credere provenga dalla stessa famiglia dello IEO. 


In quel 1929, il film venne interrotto dalla stessa Swanson dopo le riprese delle prime “scandalose” sequenze, convinta a ragione che non avrebbero passato la censura; oggi abbiamo la signorina Ceretti che prima accetta di affidare speranze e ambizioni a Corona, tramite il suo piccolo produttore personale, e poi tenta di ritrattare. All’epoca, Swanson ci rimise una montagna di soldi e buona parte della reputazione già abbastanza compromessa, dovette ricostruirsi una verginità anche sociale molti anni dopo venendo a sposarsi nobilmente in Europa. Della signorina Ceretti ancora non si sa come andrà a finire.
 

Di più su questi argomenti: