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i racconti
Tra strade impossibili e case sgarrupate, ecco l'Italia vista da colti visitatori
È da più di duecento anni che gli autori anglofoni visitano con regolarità l'Italia lasciando dettagliate impressioni scritte. Una raccolta di recensioni di Tripadvisor ante litteram
Tripadvisor esisterà da un quarto di secolo, ma è da più di duecento anni che gli autori anglofoni visitano con regolarità l’Italia lasciando dettagliate impressioni scritte. Dalle loro pagine si può trarre l’informazione che Trento è “una delle città più brutte del mondo in uno dei contesti più belli del mondo” (Lawrence Ferlinghetti), Sondrio ha “tutta la bruttezza di una moderna città italiana” (Edith Wharton), Piacenza è “una città vecchia, decaduta e fosca” (Charles Dickens), Fiorenzuola “cupa, antica e triste” (Aldous Huxley), Torre Annunziata “davvero l’ultimo posto della terra” (Mark Twain) e, quanto a Catanzaro, “non avevo mai visto una città così in rovina” (George Gissing). Cosa ci facesse poi Gissing a Catanzaro, ma anche Huxley a Fiorenzuola, resta un mistero; forse è il sintomo dell’inesausta curiosità che muove inglesi e americani, o più probabilmente la testimonianza di una grande verità letteraria: più ci si addentra nei dettagli alla ricerca di bellezza, più si finisce per guardare in faccia l’orrore. D’estate l’orrore è il turismo, e gli scrittori anglofoni se ne accorgono subito.
Centocinquant’anni fa Henry James si lamenta dell’overtourism al Lido di Venezia (“in compenso la cucina non è migliorata”), cent’anni fa lo imita Huxley riguardo a Forte dei Marmi; ciò nondimeno, continuano a visitare la penisola a frotte e si rendono ben presto conto che il primo problema dei viaggi in Italia è arrivarci. John Dos Passos va da Cittadella a Bassano su una strada fangosa, caotica e sporca. David Herbert Lawrence osa prendere il treno in Sicilia: due ore per cinquanta chilometri, poi il suo vagone letto si blocca senza motivo a Messina e, onde raggiungere Siracusa, parte un trabiccolo in cui piove dal tetto, mentre “i ferrovieri segnano allegramente sul tabellone il ritardo accumulato”; a Palermo prova ad attraversare via Maqueda, ma scivola sui suoi lastroni di pietra. Percy Bysshe Shelley viaggia per la Toscana “su una carrozza quasi priva di sospensioni, lungo una strada dissestata”. Twain scopre che a Napoli non ci sono marciapiedi, o sono così stretti da costringere a camminare per strada, mentre John Steinbeck, pur avvezzo all’avventura, a Positano annota terrorizzato: “Il traffico italiano sembra assurdo. Non si può intuire cosa stia per fare il conducente davanti, o dietro, o di fianco, e di solito poi lo fa”. E’ tuttavia negli alloggi che lo sconcerto dei colti visitatori (antologizzati da Donzelli nel bel volume “Un caldo infernale”, curato con enciclopedica acribia da Eleonora Carantini) raggiunge l’apice. Dickens non si capacita che a Genova “in ogni interstizio sia possibile stipare una qualche precaria casupola”, Nathaniel Hawthorne si trova in un albergo di Incisa “simile a una tomba etrusca”, Huxley dorme a Pietramala in una camera senza caminetto, con tutti gli abiti di lana addosso, Zadie Smith a Firenze si becca un “letto scomodo con le lenzuola ruvide, armadio scricchiolante, una sedia impagliata. Niente tv, niente frigo bar, niente da mangiare”, e siamo nel 2018, non nel 1818.
Che è invece quando Shelley prova a visitare le segrete del palazzo del Doge a Venezia, ma le trova chiuse perché è festa – del resto, scrive Evelyn Waugh, “una delle caratteristiche più esasperanti dei cocchieri napoletani è di annuire felici alle istruzioni, percorrere un tragitto elaborato e tortuoso fino a giungere davanti alla facciata dell’edificio che desideravo vedere e poi, voltandosi dal sedile, sorridere amabilmente e dire: chiusa, signore”. In compenso gli offrono continuamente di assistere a “danze pompeiane” con ragazze nude. Twain, invece, a Genova viene condotto alla casa di Cristoforo Colombo e “la guida, dopo che fummo rimasti un quarto d’ora a meditare in reverenziale silenzio, ci ha spiegato che in realtà non era proprio Colombo a essere nato lì”. Mary Shelley critica i vetturini del Trentino, cupi e insolenti, e suo marito ribatte che a Capri “le guide erano dei veri selvaggi”. Perfino Edward Lear, uno degli umoristi più sorridenti della storia, perde la pazienza quando scopre che in Calabria, per avere del latte a colazione, bisogna “sedersi in mezzo alla strada” e “cogliere il momento del passaggio delle capre”. Il più grande amante della nostra architettura, John Ruskin, si lascia sfuggire un “finalmente lontano dagli odori e dalla sporcizia dell’Italia”; ma la recensione definitiva arriva da Lawrence, stremato e disperato turista ante litteram in Sardegna: “L’Italia ha rovinato l’Italia”.