“Libertà di parola” di Norman Rockwell, pubblicato sul Saturday Evening Post del 20 febbraio ’43

Quid est veritas? /3

Quale verità per la polis

Flavio Felice

Così i pensatori del post liberalismo si ribellano agli “dèi deboli” della società aperta. Ma c’è un equivoco: Popper non teorizza la società “spalancata”. Combattere l’autoritarismo senza cedere al relativismo


Flavio Felice è professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università del Molise. Prosegue con il suo articolo la serie estiva del Foglio dedicata alla verità. Ogni settimana un autore diverso si occuperà di osservare questo concetto fondamentale dal punto di vista di una specifica disciplina: giurisprudenza, matematica, astrofisica, economia, politica, informazione, teologia. “La verità, in pratica” di Michele Silenzi è uscito il 15 luglio, “La verità alla sbarra” di Giovanni Fiandaca il 22.


   

Ha senso parlare di verità in politica, o “la realtà effettuale” con cui si misura la politica nulla ha a che fare con la verità? E ancora, parlare di verità in politica implica uno scivolamento istantaneo nel moralismo? Ebbene, mi chiedo se questi interrogativi siano questioni cruciali e ineludibili sulle quali da sempre si esercitano le persone di tutte le latitudini, ovvero problemi oziosi, “egoismi vestiti di sofismi”. Forse sono vere entrambe le risposte e il destino dell’intera discussione si gioca su quale sia l’idea di verità che coltiviamo quando ci muoviamo nel campo della politica. A tal proposito, è necessario chiarire subito che, in questo specifico ambito, abbiamo a che fare con le convinzioni morali e con la ricerca della verità pratica, i cui metodi d’indagine sono diversi tanto dalla certezza teoretica quanto da quella scientifica.

Nel momento stesso in cui ci poniamo la domanda sulla verità, ci esponiamo al rischio di essere intrappolati nella gabbia del fondamentalismo, di essere incasellati nella categoria di coloro che, in nome della propria soggettiva visione del mondo, pretendono di uniformare l’uniformabile e, più forte è la verità riconosciuta e proposta, maggiore è il rischio di essere “osteggiati, derisi e disprezzati” o, nella migliore delle ipotesi, come affermato da Papa Leone XIV in occasione della sua prima omelia ai cardinali elettori dello scorso 9 maggio, “sopportati e compatiti”.

D’altra parte, come negare che, da sempre, in nome di una qualche verità, si sono realizzate le peggiori nefandezze della storia, e che, in nome di una sbandierata verità, in tanti hanno visto negata la propria dignità di esseri umani. Qui entra in gioco un tema di grande attualità, sul quale è particolarmente vivo il dibattito in tutto l’occidente e soprattutto negli Stati Uniti d’America, dove ai fautori della democrazia liberale, sia in termini di liberalismo classico sia in termini di liberalismo progressista, si contrappongono i teorici del cosiddetto post liberalismo che hanno in Patrick J. Deneen della Notre Dame University un sicuro punto di riferimento. Le due tradizioni liberali sono praticamente agli antipodi, ma, nello specifico contesto del dibattito sul futuro della democrazia liberale, liberali classici e liberali progressisti appaiono sempre più accerchiati e insidiati dal post liberalismo e accomunati dall’esigenza di difendere e continuare a promuovere le ragioni della “società aperta”, sebbene poi le due tradizioni si distinguano su alcuni aspetti rilevanti; come ha scritto il saggista N.S. Lyons (uno pseudonimo), l’autore di The Upheaval, una newsletter di Substack: “Da otto decenni ormai la vecchia élite, sia di sinistra che di destra, è unita dalla comune priorità della società aperta e dei suoi valori”.

Il saggio di Lyons, intitolato American Strong Gods. Trump and the end of the Long Twentieth Century, dello scorso 13 febbraio, è un interessante e controverso contributo al dibattito per comprendere come la questione della verità – tra le passioni calde, la più calda che si possa immaginare –, in politica, rappresenti ancora un tema di cruciale importanza. Al di là della condivisione delle tesi sostenute da Lyons, penso sia utile, soprattutto per i fautori della società aperta come il sottoscritto, andare al cuore del ragionamento di coloro che oggi teorizzano il definitivo declino del sogno di una società aperta e globale. I teorici del post liberalismo immaginano una società comunitaria chiusa e, per tale ragione, a loro modo di intendere, più solidale al proprio interno, impregnata di valori forti e di passioni calde per i quali le persone sarebbero disposte a sacrificare anche se stesse. Dunque, una società decisamente più solida, perché protetta dagli “strong gods”, a fronte delle società aperte presidiate dai “weak gods”.

Alla base del ragionamento di Lyons troviamo una considerazione di ordine storico: lo spirito del XX secolo, sulla scia degli orrori della Seconda guerra mondiale e dei totalitarismi che l’hanno accompagnata, sarebbe caratterizzato da un “mai più”, abbracciato dalle élite politiche e culturali occidentali, nei confronti dei valori forti che avevano sostenuto l’abominio totalitario. Un “mai più” che, per quanto ragionevole e comprensibile, si sarebbe trasformato in una “ossessione totalizzante” che ha finito per negare qualsiasi passione forte e anelito morale che fosse rivolto alla ricerca della verità; ricorrendo all’interpretazione morfologica del liberalismo di Michael Freeden, siamo di fronte al quinto strato temporale (M. Freeden, Liberalismo, Rubbettino, 2023).
I maggiori imputati in questo ipotetico processo alla società aperta sono Karl Popper e Theodor Adorno, rei di aver convinto l’establishment del Secondo dopoguerra che la causa principale dell’autoritarismo e del totalitarismo sarebbe stata la “società chiusa”. Qui entra in ballo un altro autore di grande rilevanza nel dibattito pubblico americano, il teologo Russell Ronald Reno, attualmente direttore dell’influente rivista First Things, fondata da padre Richard John Neuhaus, il quale, insieme a Michael Novak e a George Weigel, ironia della storia, ha contribuito in maniera determinante ad aprire il magistero sociale di Giovanni Paolo II alle istanze del liberalismo classico di matrice anglosassone e a quel peculiare filone del pensiero sociale statunitense che Novak era solito definire Catholic Whig.

In un libro pubblicato nel 2019: The Return of the Strong Gods. Nationalism, Populism, and the Future of the West (Regnery Gateway), Reno definisce tale ideale di “società chiusa” quella particolare tipologia di società caratterizzata dai cosiddetti “dèi forti”, ossia, forti credenze e forti affermazioni di verità, forti codici morali, forti legami relazionali, forti identità comunitarie e legami con il luogo e con il passato; in definitiva, scrive Reno, tutti quegli “oggetti dell’amore e della devozione degli uomini, le fonti delle passioni e della lealtà che tengono unite le società”.

A questo punto Reno e Lyons concordano sul fatto che, all’indomani della Seconda guerra mondiale, si sarebbe diffusa una cultura particolarmente ostile a tali forti passioni, giudicate pericolose, in quanto considerate alla base del fanatismo, dell’oppressione, dell’odio e della violenza: fede, famiglia e nazione, sostanzialmente, i corrispettivi dei nostrani “Dio, patria e famiglia”, sono reputati sospetti e giudicati come l’apripista per il ritorno dell’immortale fascismo. 

A questo punto, al posto degli “dèi forti”, giudicati pericolosi e, per questa ragione, meritevoli di essere espulsi dalla cittadella liberal-democratica, appaiono i cosiddetti “dèi deboli”, come ad esempio la tolleranza, il dubbio, il dialogo, l’uguaglianza e il benessere consumistico, innalzati a difensori della società aperta, in quanto promotori di un sistema politico, economico e culturale in grado di aprire le menti, di relativizzare le verità e di indebolire i legami. In breve, le comunità come la famiglia, le chiese e le nazioni non sarebbero altro che tribù e gli ideali forti altro non sarebbero che il residuo di una cultura tribale dalla quale è divenuto necessario prendere le distanze per evitare l’eterno sprofondare nel baratro del fascismo

Per concludere questa sintetica esposizione delle posizioni così radicalmente ostili alla società aperta, è opportuno rilevare come il cuore della proposta post liberale metta in discussione tre capisaldi delle democrazie liberali: il progressivo abbattimento dei confini e la conseguente decostruzione della nozione di sovranità nazionale; il consolidamento della politica funzionalistica post ideologica; l’egemonia dell’ordine internazionale liberale. L’aspetto più interessante di questa critica radicale di destra alla nozione di società aperta, e che evidenza una certa ironia della sorte, è che essa è in parte condivisa anche da una certa sinistra e da quelle correnti di pensiero che attribuiscono al neoliberalismo, qualunque cosa esso significhi, la responsabilità di tutte le nefandezze degli ultimi ottant’anni.

 

                     

 

Con un tono fiero e soddisfatto, Lyons afferma che il sogno della “società aperta” non si è avverato, per la semplice ragione che “gli dèi forti si rifiutarono di morire” e oggi assistiamo al ritorno di archetipi quali “l’eroe”, “il re”, “il guerriero” e “il pirata”. Tutte figure che negherebbero i presupposti sui quali sarebbe fondato il “patto suicida collettivo delle democrazie liberali del mondo occidentale”. E conclude: “Il populismo odierno è più di una semplice reazione a decenni di tradimento delle élite e di pessima governance (sebbene sia anche questo); è un profondo, represso e tumultuoso desiderio di un’azione a lungo rimandata, per liberarsi dalla soffocante letargia imposta dal managerialismo procedurale e lottare con passione per la sopravvivenza collettiva e l’interesse personale”.

Appare evidente come il grande nemico di questo filone della destra americana che osteggia la società aperta e la democrazia liberale, ancor prima che la sinistra, sia proprio quel neo-conservatorismo che invece ha sposato pienamente le ragioni della società aperta. Il grande nemico è il cuckservative, un conservatore fiacco, sebbene la traduzione letterale sia ben più ingiuriosa. Come mi ha spiegato un caro amico americano, il cuckservative è un conservatore disposto a lasciare che gli altri facciano ciò che vogliono; in breve, un conservatore che, a parole, si dice contro la sinistra, ma che poi, nei fatti, la sostiene. 

A questo punto della discussione possiamo tentare di tirare le fila e riprendere il tema della verità in politica dal quale eravamo partiti. Il post liberalismo mostra un’immagine caricaturale della società aperta di Popper, la cui critica, è opportuno ricordare, si orienta al razionalismo positivistico, riconoscendo il debito dell’occidente liberale nei confronti del cristianesimo; su questo punto rinvio all’opera di Dario Antiseri Karl Popper. Protagonista del secolo XX, Rubbettino, 2002. Il filosofo viennese ha sicuramente presentato la società aperta e la democrazia liberale come incompatibili con il dogmatismo.

Tuttavia, in un percorso abbastanza simile a quello compiuto da Norberto Bobbio, secondo il quale ci sarebbe una domanda insopprimibile che risorge nell’intimo dell’uomo ogni volta qualcuno emetta la sentenza che “Dio è morto”, Popper non schiaccia la società aperta sul terreno dello scetticismo e, sul piano della morale, non ritiene affatto che le norme morali vadano ripudiate, quanto semmai criticate e discusse, in quanto a nessuno è dato il diritto di ergersi a magistrato delle idee. In questo senso, il vero nemico della società aperta popperiana è la pretesa assolutistica che accomuna potenzialmente tanto i progressisti quanto i reazionari, in nome della conoscenza esclusiva di una ipotetica direzione della storia, e non la presenza di passioni forti che invece hanno il merito di animare la discussione nell’arena pubblica.

Contrariamente a quanto affermano i teorici del post liberalismo, il principio democratico liberale popperiano si giustifica a partire dal fatto che le istituzioni della società aperta consentono la coesistenza di una pluralità di ideali all’interno della stessa comunità; si potrebbe dire che le stesse persone che si riconoscono come membri di una comunità conservano la loro dignità di persone libere. In questo modo, la giustificazione della società aperta e della liberal democrazia, come scrive Rocco Buttiglione in Sulla verità soggettiva. Esiste un’alternativa al dogmatismo e allo scetticismo? (Rubbettino, 2015), appare come una conseguenza del principio personalistico, il cui collegamento con la tradizione cristiana è indiscutibile. Oltretutto, la società aperta di Popper, come ha avuto modo di scrivere Antiseri, è tutt’altro che una “società spalancata”, senza leggi e anarchica, bensì è una società in cui le norme possono essere sottoposte all’analisi razionale che consente un processo pacifico di revisione delle stesse norme, procedendo per tentativi ed errori: problemi, congetture, confutazioni. In breve, l’obiettivo polemico di Popper non è la ricerca della verità, quanto piuttosto la pretesa che essa possa essere dedotta una volta per tutte dalla ragione, oltrepassando quel limite che la proietterebbe nel campo della ragione totalitaria.
Tornando, dunque, alla domanda dalla quale eravamo partiti: ha senso parlare di verità in politica? Possiamo rispondere solo precisando il tipo di verità alla quale facciamo riferimento quando maneggiamo la materia politica.

Dal momento che non possiamo pretendere di imporre ad alcun ambito della conoscenza un grado di certezza superiore a quello che gli è proprio – una sorta di sussidiarietà epistemologica –, non siamo autorizzati neppure a imporre nell’ambito della politica una certezza che deriva da un altro ambito, sia esso scientifico o religioso. In breve, non possiamo ridurre la decisione politica né alla certezza (sempre relativa) scientifica, né alla certezza (soggettiva) religiosa. La decisione politica si forma a partire dal metodo che è proprio della politica: la discussione critica, il costante confronto tra coscienze libere e responsabili.

La verità pratica, quella che interessa il campo della politica, è una certezza che deriva dall’opzione più prossima all’idea di verità che coltiviamo, quella che assume il maggior grado di probabilità (verosimiglianza), in una determinata situazione nella quale la scelta si impone, non essendo più rimandabile. Da questo punto di vista, la verità è in primo luogo un incontro; l’incontro con la realtà e con l’altro che ne delimita i contorni, mortificando lo spirito faraonico di onnipotenza; è un incontro con la persona dell’altro, con le sue personalissime certezze, dubbi e passioni; è un incontro che si posiziona in un determinato tempo e in un dato luogo e proprio di quel determinato tempo e di quel dato luogo assume la qualità; scrive Buttiglione: “Ciò che non avviene nel momento presente potrà avvenire in un momento successivo e chi ama davvero la verità dovrebbe evitare di renderla odiosa, imponendo con la violenza un assenso insincero”.

Il riconoscimento della qualità relativa della verità pratica o morale svela le insidie che da sempre minacciano l’homo democraticus e segnala la rilevanza di quei “geni invisibili” – la filosofia, la filologia, la storia (Enzo Di Nuoscio, I geni invisibili della democrazia. La cultura umanistica come presidio di libertà, Mondadori, 2022) – che svolgono la funzione di sentinelle poste sui bastioni ideali della cittadella democratica, la quale, per definizione, è luogo “aperto”, dunque, di fatto, esposto alle minacce dei suoi tanti nemici. La famosa massima di Sant’Agostino: “In te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas” (ritorna in te stesso, la verità abita nell’uomo interiore [De vera religione, XXXIX, 72]), ci dice che la verità pratica, quella che interessa il campo della politica, attraversa i tempi e i luoghi della vita, si incarna negli incontri che facciamo, nelle persone che amiamo e negli errori che compiamo; essa è tanto vera perché riguarda me, e me soltanto, ed è tanto relativa perché può evolvere e dispiegarsi in modo sempre più autentico grazie all’incontro con l’altro.

 

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