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racconti e macchine
Ci vuole un po' di pensiero in tutta questa tecnica
L'esistenza dell'uomo si svuota di senso se tutto può essere sostituito dalla precisione calcolante della macchina. Il racconto breve di Arthur C. Clarke come parabola del peggior determinismo scientista in cui rischiamo di cadere
“Si tratta di una richiesta che potremmo definire un po’ insolita”, disse il dottor Wagner in tono che sperò fosse pieno di tatto. “A quanto mi risulta, è la prima volta che una ditta si sente chiedere di fornire a un monastero tibetano un cervello elettronico”. E’ questo l’inizio del mirabile racconto breve di Arthur C. Clarke I nove miliardi di nomi di Dio.
Negli uffici di Manhattan di quella che potremmo immaginare come un alias dell’Ibm degli anni Cinquanta, un Lama tibetano vuole noleggiare un calcolatore avanzatissimo per accelerare un progetto che nel loro monastero viene portato avanti ormai da trecento anni e che, senza quella nuovissima macchina, ne richiederebbe ancora più di quindicimila: scrivere, secondo un alfabeto di loro invenzione, tutti i possibili nomi di Dio che, secondo un loro calcolo, sarebbero nove miliardi. Con la macchina, invece, ritengono di poter concludere l’impresa in solamente cento giorni.
Il dottor Wagner, cortese ed estremamente scettico, dopo essersi accertato della solvibilità del buon Lama accetta la richiesta del religioso rimanendo tuttavia perplesso riguardo alle possibili ragioni di un simile progetto, in apparenza folle, che il Lama si limita a descrivere come un semplice rituale.
Trasportata la macchina nel monastero, e iniziata la catalogazione dei nomi sotto la supervisione di due tecnici americani, i cento giorni, così come i nove miliardi di nomi di Dio scorrono rapidamente. Mentre i monaci sistemano in un grande libro tutti i nomi stampati dal calcolatore, uno dei due tecnici scopre quale è lo scopo di quel rituale: portare a compimento la missione dell’uomo nel mondo e far giungere l’apocalisse. Questo è ciò che accadrà quando tutti i nomi di Dio saranno conosciuti. I due tecnici non si spaventano per il rischio della fine del mondo. Sono scienziati, scettici, e credono si tratti di fandonie visionarie. Ma temono la delusione dei monaci quando, di lì a poche ore, la macchina avrà terminato di elencare tutti i presunti nomi di Dio, e il mondo sarà ancora lì.
Decidono così, con una scusa, di lasciare il monastero anzitempo, per raggiungere l’aereo che li avrebbe riportati in America. Ma proprio mentre sono in vista della pista di decollo, nel biancore notturno delle montagne tibetane, pensano che proprio in quel momento la macchina dovrebbe avere finito la sua enumerazione. Alzano allora lo sguardo verso la limpidissima volta celeste: “Lassù, senza tanto chiasso, le stelle si stavano spegnendo”.
Il racconto di Clarke è bellissimo e si può prendere con tutta la sua suggestione senza aggiungervi spiegazioni. Tuttavia, spingendosi un po’ oltre la nuda narrazione, si può vedere come l’incubo placido disegnato in questo racconto mostra una inquietante fusione tra l’alta spiritualità orientale e la granitica ragione calcolante occidentale. Il punto di caduta, di unione, sta nell’idea di un determinismo ferreo in cui il reale non diviene altro che un elenco delle cose che accadono che ci si può solo limitare a registrare. Una catalogazione dei “casi” del mondo.
I nomi di Dio possono quindi possono essere intesi, semplicemente, come l’enumerazione di tutti i “casi” del mondo, ossia come l’enumerazione di tutto ciò che può accadere. Dire tutti i nomi di Dio, equivarrebbe allora a elencare tutti i possibili futuri disponibili, facendoli così anche accadere. In una simile eventualità, ossia quella in cui tutti i futuri possibili siano calcolabili/prevedibili/elencabili – sarebbe questo un universo perfettamente determinista in cui il futuro non lo conosciamo solo perché non abbiamo ancora sufficiente potenza di calcolo – allora davvero l’apocalisse sarebbe già qui, in quanto tutto sarebbe già accaduto, e nulla vi sarebbe più da aspettare, o da creare. Tantomeno vi sarebbe più alcun modo per esercitare la propria libertà, visto che tutto ciò che può accadere aspetta solo di essere elencato/previsto.
In questo modo, cioè elencando tutto ciò che è possibile che avvenga, la libertà diviene effettivamente pura illusione in quanto la decisione di ciascun individuo non significherebbe nulla, sarebbe interamente svuotata della sua capacità di generare eventi (di genere l’incerto, l’inatteso). E’ allora facile, e forse persino evidente, trarre la conclusione che avere la certezza di non essere liberi, ossia che le nostre azioni non possano causare alcunché di imprevedibile, che non possano generare alcun nuovo che non sia già interamente previsto nei casi del mondo, sia tutt’uno per l’uomo con la fine di tutte le cose. Se l’uomo non è altro che un funzionario della necessità, ossia colui che deve far accadere solo ciò che può accadere, solo ciò che è previsto e prevedibile che accada, e se questa prevedibilità dipende solo ed esclusivamente dalla potenza di calcolo che siamo in grado di sviluppare attraverso la tecnica, la sua esistenza è, sostanzialmente, insensata e, giunta a un certo grado di sviluppo tecnico, può essere interamente sostituita dalla precisione calcolante della tecnica. Un’autentica, automatica e silenziosa presa d’atto dell’apocalisse.