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uscire dai confini
Meditate, intellettuali: dovere osare, non potete essere solo degli esperti
Una volta l'intellettuale non era tale in quanto titolare di una cattedra, ma in quanto capace di dire qualcosa di vero tempestivamente e nel modo più suggestivo, uscendo dalla propria specializzazione per esprimere valutazioni (possibilmente interessanti) sull’intera società. Due tesi a confronto
Dilettantesco e un po’ caricaturale è l’invito che il supplemento domenicale del Sole 24 Ore ha rivolto domenica scorsa ai suoi lettori e forse all’intera umanità: “La cerimonia del respiro. Meditate gente, meditate!”.
Come scoperta e come esortazione mi sembra piuttosto in ritardo, dopo che la cultura New Age ha già rimasticato da mezzo secolo l’occidentalizzazione dell’Oriente (i Beatles in una falsa India secondo loro drogata). Il guaio, il vero guaio, serio e ridicolo guaio, è che di meditazione si parla, alla meditazione si allude spesso fotograficamente e soprattutto con intenzioni pubblicitarie. Ma più se ne parla e si pubblicizza e meno se ne capisce: sembra che basti mettersi in posa o in “postura”.
Questa volta l’esibizione di conoscenza è affidata a un lunghissimo articolo firmato Mariangela Gualtieri, che parla come praticante e competente, partendo in copertina per espandersi in altre due intere colonne dieci pagine dopo. E’ un bel piatto misto nel quale si comincia parlando dei benefici che la scrivente ha ricevuto dal meditare, con l’aggiunta di monologhi percettivi in presa diretta. Ma soprattutto si citano i Veda e il Bhagavadgita, poi Guido Ceronetti e Giorgio Manganelli come adepti o testimoni (mah!) per continuare con Marina Cvetaeva, le Upanishad, l’Infinito di Leopardi come l’esperienza di un non intenzionale samnyasin, poi gli aforismi di Kafka tradotti da Calasso, poi i versi della stessa Gualtieri, poi l’induista “tu sei lui” (Dio), poi l’immancabile Paul Celan (adorato da chi preferisce non capire la poesia), poi Amelia Rosselli, poi Shiva il distruttore (citato però non perché danzante, ma perché immobile in meditazione per milioni di anni). Si potrebbe continuare con l’elenco degli ingredienti, ma Gualtieri condisce anche con un po’ di autobiografia.
Detto tutto questo, della meditazione se ne sa come prima, cioè ben poco, per la ragione che farne esperienza è sommamente arduo e richiede una disciplina inflessibile, assai rara negli attuali convertiti. Meglio evitare quello che sembrano dirne poeti e filosofi. Ma così è: di meditazione si parla sui giornali, la si consiglia, se ne dà notizia.
Intanto gli intellettuali, se ci sono, dove sono, cosa pensano, cosa se ne dice? Sul tema torna Claudio Magris in estrema sintesi. Il Corriere ha pubblicato domenica scorsa l’anticipazione di un testo scritto da Magris per la Milanesiana: titolo redazionale “L’abbaglio di certi intellettuali”. Quale abbaglio? E chi sono “certi intellettuali”?
La tesi di Magris è realistica, modesta, ragionevole e prudente. E’ cioè questa: gli intellettuali devono evitare di apparire onniscienti e di fare i tuttologi. Un po’ vero e un po’ no. Perché, se si segue Magris, allora i soli veri intellettuali sarebbero gli specialisti, gli esperti, i “cultori della materia”, gli studiosi monotematici. Per mettere sotto processo la supponenza di chi pretende di “saperla lunga” su tutto e da sempre (vedi il Cacciari televisivo pronto a dire sempre l’ultima parola) ecco che Magris cancella la realtà degli intellettuali che “osano” (come voleva l’illuminista Kant) uscire dai confini della specializzazione per usare pubblicamente la ragione critica.
In verità, non sono pochi né poco rilevanti gli oggetti di conoscenza e i temi da discutere che riguardano tutti, la vita comune e la cultura socialmente dominante, la quale (come disse qualcuno a metà Ottocento) è l’ideologia della classe dominante. Contrariamente a ciò che vuole la prudenza un po’ perbenistica di Magris, filosofi e scrittori, sempre poco specialisti, hanno parlato di tutto e ragionato su tutto. Perché privarsi del pensiero e delle opinioni, per esempio, di Leopardi o di Kierkegaard, di Schopenhauer e Baudelaire fino a Kafka e Eliot, a Pasolini e a Tom Wolfe…?
Una volta gli intellettuali non erano tali in quanto titolari di una cattedra, ma in quanto capaci di dire qualcosa di vero tempestivamente e nel modo più suggestivo. Dicesi intellettuale chi osa uscire dalla propria specializzazione (ammesso che la letteratura e la filosofia siano specializzazioni) permettendosi di esprimere valutazioni sull’intera società: sull’economia senza essere economisti, sulla politica senza essere politologi, sulla scienza e la tecnologia senza essere scienziati o ingegneri, sul costume sessuale senza essere sessuologi, sulla criminalità senza essere criminologi, sulla socialità di massa senza essere sociologi, sulle religioni senza essere teologi, sulla cultura senza essere… che cosa? Magris, ottimo germanista e saggista, sembra dimenticare qualcosa che conosce bene: cioè che lungo tutto il Novecento la Kulturkritik ha avuto in Germania e in Austria un ruolo centrale tanto in letteratura che in filosofia. Fra le varie definizioni di intellettuale, direi che una delle più esatte è quella, non troppo esatta, di individuo che ha la passione e la capacità, empiricamente provata, di pensare in pubblico comunicando nel modo migliore qualcosa di interessante.