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a teatro

Bentornata Norma, anche se con una regia orrenda e senza un'idea forte

Alberto Mattioli

Jessica Pratt salva all’ultimo una produzione caotica ma musicalmente solida. Ottima direzione di Luisi, regia di Oliver Py con citazioni e pasticci senza bussola

Ultimo Bellini alla Scala con una protagonista di riserva che sostituisce la sostituta. In pratica, Marina Rebeka dà forfait, Marta Torbidoni che l’aveva già rimpiazzata per due sere idem, e arriva una Norma last minute ma di lusso, cioè Jessica Pratt. Bilancio nel complesso assai buono: in negativo, qualche slittamento di intonazione e agilità non sempre pulite; in positivo, una bellissima “Casta diva”, recitativi scanditi e, dal duetto con Pollione al rogo, un bellissimo finale in crescendo d’intensità. L’ex virtuosa-e-basta è diventata un’interprete. In più Pratt è dimagrita e sotto una parruccona fulva da Milva d’antan sta benissimo.


Il resto è più o meno lo stesso. Olivier Py è un grande regista, il che significa che, quando sbaglia, sbaglia in grande. Questo spettacolo non è brutto: è orrendo. Si può fare tutto: Norma nel Risorgimento, sai che novità, l’abbiamo vista anche a Piacenza, per dire; Norma come Medea (ma in Soumet ella uccide i cari pargoletti, che si chiamano nientemeno che Agénor e Clodomir, in Romani no); Norma come diva del Tempio Scala minacciata dalla concorrenza della giovane e rampante Adalgisa. Ma tutto insieme no, perché il frullato diventa indigeribile. E, quando nella sinfonia ci viene inflitto un balletto di soldati austriaci su una coreografia da sabato sera della Carrà, anche ridicolissimo. Dirige invece bene Fabio Luisi, sicuro, autorevole, ritmicamente flessibile (una delizia i rallentando nel secondo duetto delle donne), ingiustamente accusato di fracassonismo: garantisco che piatti e grancassa ce li ha messi Vincenzo nostro. Vasilisa Berzhanskaya è un’Adalgisa incantevole, Freddie De Tommaso un Pollione becero (e poi salta allegramente il do della cavatina: sogno, o son desto?). Quanto a Michele Pertusi e al Coro di Malazzi, sono come l’Arma dei carabinieri o Mattarella: alcune delle poche istituzioni italiane di cui ci si può ancora fidare.


Resta il problema degli ultimi anni scaligeri: la completa mancanza di qualsiasi progettualità artistica. E’ chiaro che prima o poi alla Scala bisognava riportare Norma, desaparecida dal 1977, perché è un’opera nata qui, un titolo mitico del repertorio italiano e, insomma, sarebbe come andare in trattoria a Bologna e scoprire che nel menu non hanno i tortellini. Però se fai Norma nel 2025 e sei la Scala, che teoricamente dovrebbe dare la linea al resto del mondo invece di arrancare al suo seguito, ci vorrebbe una riflessione preventiva su cosa sia oggi questo titolo, un progetto interpretativo, un’idea forte, insomma una direzione artistica. Magari partendo proprio dalla prassi esecutiva e sulla distribuzione: per esempio, ieri l’altro sarebbe stato certamente più autentico ascoltare la Berzhanskaya in Norma  e la Pratt in Adalgisa. E, a parte ogni considerazione su che voce richieda davvero Pollione (baritenore, Donzelli, do you know?), perché ad Antonio Poli, nettamente superiore a De Tommaso, è stata data una recita sola? Ma queste cose Lucky Ortombina le sa, a differenza del suo predecessore, quindi è inutile ripeterle. E’ un promemoria, via.

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