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Letture

Per stare nel mondo e nei suoi problemi occorre la coscienza di chi si è

Ubaldo Casotto

“Un volto nella storia”. Undici lezioni di Luigi Giussani che testimoniano il cammino di ripartenza di quel che restava di Gioventù studentesca dopo lo tsunami del Sessantotto

“Strapperò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne” (Ezechiele, 36). E’ questa l’incredibile promessa di Dio agli uomini e alle donne di Israele. Luigi Giussani la cita in Un volto nella storia. Il compito della Chiesa nel mondo (appena uscito per Rizzoli (276 pp., 17 euro), raccolta di undici lezioni del 1969-1970 tenute al Centro culturale Charles Péguy di Milano. Un “corso di teologia” ribattezzato dallo stesso Giussani “scuola di comunione”, che testimonia il cammino di ripartenza di quel che restava di Gioventù studentesca dopo lo tsunami del Sessantotto. 

Rizzoli lo scorso anno ha pubblicato un altro volume che raccoglie gli interventi tenuti da Giussani in quegli stessi anni, appena tornato dagli Stati Uniti, dove era andato per studio dopo essere stato esautorato dalla guida del movimento che aveva fatto nascere. Giussani ricomincia con chi è rimasto (in uno di quegli interventi, guardando la platea che lo ascolta, dice: “Pensavo con un certo dolore che delle 180 persone qui presenti una sola era di 13-14 anni fa”. E in un altro passaggio: “Abbiate a comprendere la fatica che psicologicamente devo fare”. Quel libro, di cui questo è l’ideale e storica continuazione, si intitola Una rivoluzione di sé, e mi è parsa una di quelle fortunate coincidenze che illuminano il significato delle parole che quelle lezioni si tenessero in un centro dedicato a Péguy. Il quale già da socialista parlava di rivoluzione come qualcosa che più che cambiare le cose cambia il soggetto. Per lui “non sono gli uomini dal di fuori che fanno la rivoluzione, ma gli uomini dal di dentro” (Noel Dumont). E’ il cuore di pietra che cede il posto a un cuore di carne.

 

           

 

La situazione in cui Giussani ricomincia è quella di un cattolicesimo italiano – lo dirà più volte in queste pagine – che ha ceduto a due tentazioni: quella della secolarizzazione, assumendo le categorie delle ideologie del tempo, e quella dell’intimismo cultuale, che definisce una concezione “un po’ magica della presenza del cristiano nel mondo”. Per dirla in termini crudi, dopo il socialista Péguy, affidiamoci al comunista Antonio Gramsci, il quale, cinquant’anni prima così commentava un’iniziativa della Gioventù cattolica italiana, che aveva bandito un concorso a premi ponendo queste due domande: Come attirare i giovani nei circoli cattolici? Come diffondere la buona stampa tra i giovani? “Gioventù decrepita, quella cattolica, che avendo perduto ogni calore interno cerca in accomodamenti pratici, in adescamenti da correzionale, di saturarsi di iscritti; non importa che la maggior parte sia peso morto, ingombrante, anodino […] basta che all’occasione si possano snocciolare centinaia di nomi come grani di rosario, per protestare contro una statua di donna nuda o contro l’esposizione dei giornaletti pornografici. […] Non bastano i concorsi a premi per dar vita a un cadavere: il tempo dei miracoli è passato e Lazzaro nella sua tomba dorme il sonno dei giusti e mai più le sue palpebre si riapriranno per vedere la luce del sole”.

Difficile dargli torto, ma pur avendo molte ragioni, Gramsci non ha ragione. E lo si capisce in modo chiaro quando dice: “I cattolici aspettano la redenzione dalla grazia. Noi non aspettiamo nulla da altri, all’infuori di noi stessi”.

Ecco, Giussani interviene a questo livello, risponde a questo equivoco in cui sono caduti non solo i sessantottini, la sinistra, ma anche molti cattolici, giessini compresi: non saremo noi con le nostre idee, le nostre teorie, i nostri progetti e il nostro impegno e le nostre azioni (cose che don Giussani si guarda bene dal disincentivare, e lo ha fatto innanzitutto con la sua personale e instancabile operosità) a risolvere i problemi dell’umanità (l’amore, il lavoro, la cultura e la politica), anche perché “non è compito di Cristo e del fatto cristiano come tale il risolverli”. Questi problemi li può affrontare più intelligentemente, più volitivamente, un uomo nuovo, una “creatura nuova” (“in san Paolo è come un’idea fissa”), per restare nell’immagine, uomini con “un cuore di carne”.

“Per la missione che ci è data, innanzitutto occorre qualcosa che viene prima delle nostre azioni, qualcosa che ci è dato, qualcosa che è in noi senza di noi, che è grazia. […] Qualcosa che viene prima”. Riconoscere e aderire a questo dono – dice Giussani – è la vera alternativa a un mondo in cui l’uomo presume di sé, credendo di autodeterminarsi.

Per condividere veramente i bisogni degli uomini del nostro tempo, per stare nel mondo, nella storia e nei suoi problemi, occorre una personalità, un volto, la coscienza di chi si è. Ma non si tratta della coscienza individualistica dell’io, bensì della consapevolezza che “il costituirsi della nostra personalità è un dato, è una grazia, è un dono, è qualcosa che ci arriva fisicamente, attraverso uno strumento fisico: la storia della Chiesa, la tradizione del mistero di Cristo, dentro cui siamo stati battezzati, dentro cui siamo nati”. Insomma – dice Giussani – la coscienza della persona investita dall’incontro con il cristianesimo presente oggi è inseparabile dalla coscienza di una comunione, di una comunità. Di fronte a tante diatribe intra-ecclesiali vengono qui in mente le parole del vangelo: “Ciò che Dio ha unito, l’uomo non osi separarlo”. Noi pensiamo che Gesù parlasse solo del matrimonio, sono parole invece che riguardano alla realtà in quanto tale, all’essere. Autocoscienza e comunione – per dirla in giuridichese – simul stabunt vel simul cadent.

Dice al proposito don Giussani nel primo dei due libri: “Quanto più uno diventa autocosciente, tanto più capisce di essere una solo cosa con l’altro”. È questa unità, altrimenti impossibile, che può cambiare il mondo (“quello che ci appassiona è la salvezza del mondo”), ma attenzione – avverte più volte – alla sua riduzione sociologica ed attivistica. “La compagnia non è uno spunto per essere presenti”, è una dimensione dell’io, della coscienza di sé e della libertà che la riconosce e vi aderisce. La coscienza di sé come parte di un corpo (“quel materialista di don Giussani” mi disse una volta sorridendo un cardinale che gli voleva molto bene) arriva a questo livello della persona, e la cambia. Che capacità avrebbe di attraversare la storia con una speranza di cambiamento, a fronte del male che quotidianamente vi constatiamo, una realtà che non è in grado di cambiare me? Don Giussani lo dice meglio: “Non si può avere la certezza reale che il fatto cristiano risolverà il mondo se non attraverso la mediazione della certezza che questo accada per me”.

“Il punto in cui Dio, cioè Cristo, la Chiesa, opera la salvezza del cosmo è la persona. E’ perciò nel cambiamento della persona che si opera l’avvenire più giusto e più sano”. Con un inconveniente, che libera dalla tentazione e dai tentativi di potere a cui noi cristiani pieghiamo il mistero della speranza che è la persona di Cristo: chi lo segue veramente si prepari ad abbracciare la povertà (che è un modo, diverso, strano, di possedere tutto, Giussani la chiama “verginità”) e a essere considerato uno straniero: “Il povero che va in giro stracciato è uno straniero per la strada”. Dodici anni dopo questi interventi di Giussani, san Giovanni Paolo II li confermò: “Voi siete senza patria. Perché non vi lasciate assimilare da questa società; questa società non vi può assimilare. Voi siete senza patria”.

Péguy – è utile tornarci – parla di rivoluzione come di un’escavazione, un approfondimento. Giussani ha approfondito questa coscienza dell’io e della comunione nei seguenti vent’anni di guida del movimento di Cl sino al culmine dei suoi interventi pubblici, il 30 maggio 1998, quando, davanti a Giovanni Paolo II e a una piazza san Pietro gremita, ha detto: “Lo Spirito di Gesù, cioè del Verbo fatto carne, si rende sperimentabile, per l’uomo di ogni giorno, nella Sua forza redentrice di tutta l’esistenza del singolo e della storia umana, nel cambiamento radicale che produce in chi si imbatte in Lui e, come Giovanni e Andrea, Lo segue. […] Quello che poteva sembrare, al massimo, un’esperienza singolare diventava un protagonista nella storia, perciò strumento della missione dell’unico Popolo di Dio. Questo ora fonda la ricerca dell’unità espressa tra di noi”. E, con uno sguardo drammatico sul male che la nostra libertà sceglie (anche nella Chiesa, come disse nella sua ultima intervista: “La Chiesa ha cominciato a abbandonare l’umanità secondo me, secondo noi, perché ha dimenticato chi era Cristo, non ha poggiato su… ha avuto vergogna di Cristo, di dire chi è Cristo”) concludeva: “Il Mistero come misericordia resta l’ultima parola anche su tutte le brutte possibilità della storia”.

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