Getty

l'intervista

Irvine Welsh torna sui personaggi di “Trainspotting”: “Sono loro a parlarmi”

Stefano Friani

Il nuovo romanzo "Men in Love". Attraverso libri, musica e memorie, l'autore riflette su dipendenze, scrittura e identità scozzese. Chiacchierata con l’ospite d’onore di "Libecciata", il festival letterario all’Isola del Giglio

Siamo in anticipo sull’appuntamento in quel di Porto Santo Stefano per intervistare Irvine Welsh, lo scrittore scozzese autore di Trainspotting. Il proprietario del ristorante ci fa accomodare fuori e, da autentico lupo di mare, millanta l’arrivo di un “maestralino” che in realtà non farà mai la sua comparsa. Ma come, gli dico, siamo qui per incontrare l’ospite d’onore di Libecciata, il festival di libri all’Isola del Giglio. “La libecciata fa solo danni qui, è quella che affonda le barche”. Cominciamo bene. Si schiatterà di caldo, ma almeno la vista sul molo è da cartolina. Quando arriva, Welsh è vestito da americano in vacanza: occhiale a specchio, berretto nero, maglietta tecnica, unica nota stonata il pinocchietto di jeans sfrangiato. Con lui c’è la radiosa terza moglie Emma Currie, attrice e anche lei romanziera. Ha un libro in uscita ed è preoccupata che venga letto solo dalle signore dei gruppi di lettura: “Sono le uniche che leggono di questi tempi”. Si sono conosciuti cinque anni fa nel pub di cui era proprietaria, il Little White Pig. Quando ci si è messa insieme si immaginava chissà che vita da celebrità e invece l’appartamento di Edimburgo in cui abitava lo scrittore prevedeva un letto, un divano di pelle, la tv e dei pesi appoggiati per terra. 

 
Almeno a tavola Irvine Welsh ha scelto la vita: ordina pesce spada alla griglia, un’insalatina di pomodoro, pilucca qualche cozza, si spazzola i gamberetti e sorseggia vermentino. Lo intercettiamo nell’ultima parte del suo tour per promuovere Resolution (Guanda), ma tra poche settimane uscirà nel Regno Unito il suo nuovo romanzo, Men in Love, in cui ritroveremo i protagonisti di Trainspotting. È anche previsto l’arrivo del suo primo album discografico, oltre a un documentario su di lui intitolato Reality Is Not Enough. Calendario piuttosto fitto insomma. La moglie lo pungola: “Sei un brand importante come autore”. Lui le risponde scherzando: “Non dire parolacce in pubblico, tesoro”. Gli chiedo della polemica del momento, se anche lui come molti suoi colleghi soffra le presentazioni, stare sempre in giro. “Oh, è terribile”, mi dice, e finge di piangere mimando una sviolinata triste. In effetti, a guardarsi intorno ci sono posti peggiori. “Molti scrittori vogliono solo scrivere e non diventare autori con tutti i doveri che la cosa comporta. A me piace promuovere i miei libri perché ti permette di staccare da te stesso. Fortunatamente io riesco a scrivere dappertutto. Il posto in cui sto filtra attraverso gli odori, le sensazioni, ma alla fine se scrivo una scena in un casinò a Las Vegas, quello a cui sto davvero pensando siamo io e i miei amici in una bisca a Edimburgo”.

 

Quest’ultimo libro è ambientato dalle parti di Brighton, ma il richiamo della terra natia si fa sentire sempre, nonostante Welsh abbia vissuto dappertutto: Chicago, Miami, Dublino, Amsterdam, Londra. Che effetto fa aver contribuito a ridefinire la narrazione della propria città e della Scozia in generale con la sola forza dell’immaginazione? Non è come vedere i propri sogni materializzarsi? “Mi sembra un ragionamento da mitomane, o tutt’al più da politico che vuole imporre la sua visione sulla realtà. Lo scrittore non può essere così vanitoso, il suo ruolo è documentare quello che vede attorno a sé. Non sono io a forgiare la Scozia o la Gran Bretagna, semmai il contrario. Io sono solo un tramite fra il luogo e la pagina”.


Finiamo a parlare di una passione in comune, George Best, che ha giocato nei suoi beneamati Hibs. Una volta il nostro si è fatto quattrocento miglia per vederlo giocare e quello non si è nemmeno presentato. Probabilmente era sbronzo da qualche parte. “Dopo il trapianto sembrava essersi rimesso in pista, ma si capiva che non riusciva a farne a meno, di bere”. Le dipendenze torneranno in questa nostra chiacchierata. Welsh è andato anche ai funerali a Belfast, ricorda “una fiumana di gente, è stato l’unico evento capace di mettere insieme le due tribù locali, protestanti e cattolici”. Molti dei suoi personaggi sembrano seguire la traiettoria narrativa dei George Best: prima le sostanze o qualche altra cosa, poi la disintossicazione, sostituire un’ossessione con un’altra. “Io sono il primo a ossessionarsi, è un modo per misurare il tempo. L’eroina o l’alcol ti danno un orologio biologico, una struttura. La scrittura funziona allo stesso modo, ma a me piace sabotarla questa routine”.

  
A proposito di personaggi: Resolution chiude la trilogia dell’ex poliziotto Ray Lennox, ma prima c’erano stati i libri su Terry Lawson, e ora Men in Love riprenderà le vicende di Renton, Sick Boy, Spud e Begbie. Proprio non ce la fa a esaurire i suoi personaggi in un solo romanzo. “Sono loro a parlarmi e a raccontarmi come va il mondo. Ho le loro vite scritte su migliaia di pagine, in ordine cronologico, ma finché non trovo il motivo per inserirli in un libro, resteranno lì”.

 

Ma dopo una ventina di libri ci si diverte ancora o diventa un lavoro? Non è che si è dato alla musica per questo? “Scrivere è ancora divertente e soprattutto posso farlo da solo. Per la musica ho bisogno di altre persone, specie ora che ho anche creato un’etichetta discografica, la Jack Said What. E poi mi sono preso qualche bella rivincita”. Quando era un giovane strimpellatore punk a Camden Town scoprì che i suoi compagni l’avevano fatto fuori dalla band leggendo un annuncio in cui cercavano un bassista. La rivalsa rimane uno dei suoi temi. “Ma la miglior vendetta per me è vivere bene. Aspiravamo tutti a qualcosa di meglio”. Il pranzo a questo punto sarebbe finito e dovremmo cominciare l’intervista prima del suo traghetto per il Giglio. Ci mettiamo da una parte e inizio a registrare, ma quello che mi doveva dire me l’ha già detto.

Di più su questi argomenti: