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(1937-2025)
Addio a Goffredo Fofi, il critico che amava odiare il cinema
Antagonista e spietato, ha demolito autori, film e produttori in nome di una rivoluzione che non arrivava mai. Aveva ragione su tutto, tranne sul punto che reggeva l'argomentazione. Ci ha lasciato un'opera essenziale, capace ancora oggi di farci innamorare del cinema italiano
Poche cose mi irritavano come le recensioni cinematografiche di Goffredo Fofi. Proprio per questo me le leggevo sempre, più o meno tutte, sistematicamente. Trovavo anche magnifico che quella spocchia paramarxista e terzomondista fosse sfoggiata sulle pagine del “Sole 24Ore”, per una Confindustria antagonista, “contro” e cinephile. Ma devo anche ammettere che oggi i critici capaci di costruire una stroncatura che si regge su un’idea fissa, non sulle parole d’ordine del giorno e le mode del momento, si contano sulle dita di una mano monca.
Nel 1971, quando uscì “Il cinema italiano: servi e padroni”, Goffredo Fofi non aveva neanche trentacinque anni, ma era già all’apice della sua incazzatura. Un sottotitolo minaccioso: “Un pamphlet sugli opportunismi e le fughe dei registi, le miserie e i condizionamenti del mondo del cinema”. La promessa era mantenuta. Fofi sparava a zero su tutto e tutti. Autori, film, critica, produttori, la casta cinematografara e il mammozzone ministerial-romano al gran completo. Fofi aveva ragione su tutto. Tranne che sul punto che reggeva l’argomentazione. Per lui il problema del cinema italiano non era la già grave involuzione produttiva, la già pesante dipendenza dallo stato, la perdita di pubblico e, ancora peggio, la perdita di interesse dei registi verso il pubblico. No. Il problema è che c'era poca sinistra. Poco antagonismo. Poca rivoluzione. Troppa borghesia. Invece di finanziare film con cui abbattere sé stesso, lo stato cinematografaro ci teneva buoni con la pseudo-denuncia del film civile o con quelle finte bandiere rosse e hollywoodiane di “Novecento” di Bertolucci. Erano gli anni in cui le riviste da battaglia si chiamavano “Ombre Rosse”. Bisognava sottrarre il cinema ai servi del capitalismo. Ci si divertiva così. Oggi, il giovane lettore hipster che ha scoperto Fofi con le recensioni su “Internazionale”, faticherebbe a capire che “La classe operaia va in paradiso” era un film “fascista”. Ma nello scavalcamento a sinistra, Fofi era un maestro.
Prese come tutti i critici delle gran cantonate (Fellini, per esempio, su cui poi cambiò idea, ma differenza di altri riconobbe che si era sbagliato, anzi divenne poi fellinologo compulsivo). Pareggiò però i conti con un gran libro su Totò, quando Totò non era ancora un “oggetto culturale” su cui esercitarsi. Penso che le cose migliori le abbia fatte nella critica letteraria, nella storia “minore” d’Italia. Qui si vedeva un po’ meno quel ditino sempre alzato, l’indignazione perenne, l’odio per la falsa cultura di massa e il mercato, come invece nel cinema – che senza mercato però non può esistere.
Ci lascia almeno un’opera fondamentale. E non una frase di circostanza. Quell’ “Avventurosa storia del cinema italiano” raccontata da chi il cinema l’ha fatto, come un podcast in quattro stagioni ma con dentro Rossellini, Visconti, Mastroianni, Monica Vitti, Olmi, Sordi, Tognazzi, le dive dei telefoni bianchi, Risi, Monicelli, Scola, eccetera. Un gran titolo salgariano. Uno dei pochi libri che fanno davvero innamorare del cinema italiano e scendere qualche lacrima per quel che è stato.