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in scena
Il lavoro della regista su Händel può non piacere, ma è realizzato a regola d'arte
La storica estate operistica romana si scrolla di dosso la patina nazionalpop e diventa festival vero. Debutta Ilaria Lanzino con una Resurrezione di Händel intensa e disturbante: niente fischi, solo applausi
Quest’anno la tradizionale estate operistica romana un po’ peciona a Caracalla diventa un vero festival, affidato nientemeno che a Damiano Michieletto. Quattro produzioni d’opera e un balletto, in contemporanea e su due palcoscenici diversi, sono un impegno produttivo notevole (con questo caldo, poi…). La scelta dei titoli non è del tutto scontata (West Side Story, Don Giovanni e, vabbè, La traviata), per nulla quella dei registi, tutti di rito “moderno” quindi di regola non in regola con l’opera all’aperto, normalmente nazionalpop. C’era poi un’autentica apprensione per La resurrezione di Händel che ha aperto le danze martedì alla Basilica di Massenzio, perché era il debutto in patria di Ilaria Lanzino, italiana ma attiva in Germania donde arrivano recensioni da far imbufalire ogni Melomane Medio: Regietheater puro e duro, opere “stravolte” e “provocazioni” e “povero Verdi” e quant’altro il populismo tradizionalista esecra. Astutamente, a Lanzino non è stato affidato un classicone ma lo splendido oratorio di un Händel ventitreenne ma già genialissimo, composto nel 1708 durante il soggiorno romano in cui fece innamorare mezzo Sacro collegio, e non solo per ragioni musicali (ma i registri dei conti dell’eccellentissima casa Ruspoli testimoniano anche delle spese esorbitanti per il cibo del caro sassone, cui gozzovigliare piacque sempre).
La resurrezione, dunque, libretto di Carlo Sigismondo Capece dove una montagna di concettini barocchi e di arie col daccapo partorisce un topolino drammaturgico: Maria Maddalena, Maria di Cleofa e San Giovanni si condolgono per la morte di Cristo, un Angelo e Lucifero bisticciano, poi il Salvatore risorge in gloria. Tutto qui. Attualmente, è molto di moda trasformare in opere gli oratori di Händel, perché danno l’occasione al regista di turno di sbizzarrirsi: è chiaro che se metti in scena La resurrezione devi inventare quella drammaturgia che non c’è. Così Lanzino non fa morire Cristo ma il figlio della coppia “normale” formata da Maddalena e Giovanni (Maria di Cleofa diventa una nonna o zia o altra prefica di casa, cui spetta scodellare la minestrina serale), mentre l’Angelo è una specie di Lady Gaga con grandi ali bianche scortata da quattro boys con le alucce uno dei quali si svela poi essere Lucifero, che riappare in lamé lungo (però il diavolo en travesti lo si era già visto nel famoso Faust di McVicar). Segue la discesa agli inferi, metaforici, della madre inconsolabile, un’elaborazione mancata del lutto fra momenti di rassegnazione, rabbiose rivolte contro il destino, alcolismo, divorzio e, per finire, morte. Senza spoilerare troppo, la resurrezione comunque c’è, modello Suor Angelica.
Lo spettacolo è bello, forte, coerente, senza cali di tensione, benissimo montato e recitato. Si può essere d’accordo o meno, certo. Appare però bizzarra l’assoluta incapacità italiana di valutare una regia dal punto di vista tecnico, come se un direttore si giudicasse solo dall’idea che ha della partitura e non dalla sua capacità di realizzarla. Per una volta, sarebbe bene separare i fatti dalle opinioni: che Lanzino sappia fare il suo mestiere, e molto bene, è un fatto; che questo spettacolo sia splendido, un’opinione del sottoscritto. Ma condivisa dal pubblico perché i temuti fischi non ci sono stati e anzi, a differenza di quel che accade di solito, gli applausi sono raddoppiati all’apparire della responsabile della parte scenica.
Quella musicale è difficilmente valutabile per via di un’amplificazione indecente che trasforma ogni forte in uno schianto e ogni piano in un pigolìo. La direzione di George Petrou sembra comunque vivace e spigliata, e l’Orchestra nazionale barocca dei Conservatori, dopo un inizio un po’ emozionato, è di una qualità sorprendente. Fra i due soprani, Sara Blanch e Ana Maria Labin, è una gara entusiasmante di bravura vocale e scenica, “a perfetta vicenda”, come si sarebbe detto ai tempi di Händel, ma Teresa Iervolino non è da meno. Charles Workman era in forma; Giorgio Caoduro, non molto. Bilancio finale con due liete novelle: La resurrezione è risorta e abbiamo una nuova regista.