
L'isola di Santo Stefano con il suo carcere borbonico vista dalla spiaggia del Faro a Ventotene (foto Getty)
Il tempo è un'isola
Le ore di chi scrive da una cella. Leggere Pertini e Ginzburg a Ventotene, con o senza figli. “Frate’, non mi stressare”
Pubblichiamo il testo inedito di Annalena Benini, scritto durante la quattordicesima edizione del Festival Letterario di Ventotene, Gita al Faro, diretto da Loredana Lipperini, promosso dall’Associazione per Santo Stefano in Ventotene Onlus, in collaborazione con la Libreria Ultima Spiaggia.
Quindici anni fa, le prime volte che venivo sull’isola, i miei figli erano molto piccoli e mi tiravano le braccia, la gonna, il costume i capelli le labbra, per tutto il tempo. Quindici anni fa vivevo su quest’isola completamente sbilanciata verso il basso, per tutto il tempo. Li inseguivo nella piazza, li prendevo in spalla lungo le scale per la spiaggia e soprattutto li riprendevo sulle spalle dalla spiaggia, portavo i capelli corti e mi scottavo sempre sulla nuca, perché era quella la parte di me più esposta. Chinata sulla sabbia, chinata sull’acqua, chinata sui panini e chinata sui ghiaccioli. Chinata sulle lacrime di chi si era tagliato un piede sugli scogli, chinata e di spalle a tutto il resto, tranne che a loro due. Sbirciavo il mare, l’orizzonte, Santo Stefano, poi tornavo a guardare in basso.
Quindici anni dopo, torno sull’isola e cammino diritta, sola, i miei figli sono rimasti a Roma: forse lei parte ma non sa quando né per dove, mamma non mi stressare, lui fa uno spettacolo a teatro e non vuole che io gli chieda che spettacolo, mamma non mi stressare. Andiamo sull’isola tutti insieme? Il coro greco, stavolta: mamma non ci stressare.
Io cammino dritta, ho i capelli lunghi adesso, ma guardo ancora in basso. Guardo i bimbetti che corrono nella piazza inseguiti da madri con la nuca scottata, guardo la bambina che dorme nel passeggino mentre il padre bisbiglia frasi dolci al telefono, fa una faccia un po’ da scemo, è fermo immobile ma agitato, e nascosto dietro le scalette, e penso che mia figlia si svegliava sempre nel momento esatto in cui io smettevo di muovere il passeggino e mi sedevo per ordinare una crema di caffè. La bimba infatti si sveglia, piange, il padre sospira e chiude la telefonata, sento che dice solo: amore mio.
Estati e inverni sbilanciata verso il basso. Anelavo a una intera conversazione fra adulti in cui fosse vietato pronunciare la parola bambini
E’ passato un secolo ed è passato in un minuto. Vivevo le estati e gli inverni sbilanciata verso il basso, verso l’altro, sospiravo e anelavo a una intera conversazione fra adulti, una conversazione in cui fosse vietato pronunciare la parola bambini, a un intero libro letto senza che qualcuno lo trascinasse in acqua, sentivo l’imminenza di qualcos’altro. Adesso, che cos’è cambiato? Sento l’imminenza di qualcos’altro e anche di quello che non ho più, tutte quelle mani e braccia che mi tirano il costume, la faccia, che chiedono una storia poi un’altra e dopo il gelato un’altra storia. Mi piacciono ancora le conversazioni senza la parola: bambini.
Mio figlio è diventato un lettore esaltato. “Ho perso un sacco di tempo e di libri”. Quanto dura il tempo quando si è costretti?
Non so se me ne sono accorta, è difficile accorgersi del tempo, ma so che al compimento del sedicesimo anno di vita, dopo tutte le estati passate a buttare i miei libri in mare o nella sabbia, e a piangere disperato se tornavo a casa dal lavoro con un libro della Pimpa (“Mamma questo non è un regalo, è una punizione”), mio figlio è diventato un lettore esaltato: ha cominciato una sera, per dispetto, con Il signore delle mosche, ha proseguito con Ventimila leghe sotto i mari, La pelle, Addio alle armi, Il diario di Anna Frank, Il vecchio e il mare, Misery non deve morire, Se questo è un uomo, legge voracemente, devo dire anche follemente: sul divano, sul mio letto, a testa in giù, a gambe in su, sdraiato sul cane, ricoperto dai gatti, chiuso in bagno, sui treni fermi per ore nel nulla, in metropolitana andando a scuola, in autobus andando ovunque. E un attimo prima che io partissi per Ventotene, rotolandosi sui vestiti che avevo appena piegato per metterli in valigia, ha detto: mi sa che sono stato un coglione. Ho perso un sacco di tempo, ho perso un sacco di libri.
Amore ma hai sedici anni, hai tutto il tempo, ho detto immediatamente patetica, di nuovo sbilanciata verso il basso anche se lui adesso è più alto di me.
Mamma non mi stressare, ha risposto – bene amore, ciao io parto, tu chiedi i soldi a tuo padre.
Il tempo, che cosa significa avere tutto il tempo o non averne più, il tempo in effetti dura un secolo, il tempo dura un minuto, il tempo su quest’isola potrebbe durare per sempre, e il tempo del carcere quanto dura? Il tempo quando è costretto, il tempo quando è spaventato, il tempo quando è impedito? Ci penso quando entro in carcere per un’ora, io poi esco, riprendo la borsa il cellulare il documento, controllo subito i messaggi, e quelle ragazze restano dentro a farsi altri tatuaggi.
Ci penso quando leggo le parole dal carcere di Ventotene di Sandro Pertini, cella numero 36, anno 1929: “La sveglia suona: è l’alba. Dal mare giunge un canto d’amore, da lontano il suono delle campane di Ventotene. Dalla bocca di lupo guardo il cielo, azzurro come non mai, senza una nuvola, e d’improvviso un soffio di vento m’investe, denso di profumo dei fiori sbocciati durante la notte. Ricado sul mio giaciglio. Acuto, doloroso, mi batte nelle vene il rimpianto della mia giovinezza che giorno per giorno, tra queste mura, si spegne. La volontà lotta contro il doloroso smarrimento. E’ un attimo: mi rialzo, mi getto l’acqua gelida sul viso. Lo smarrimento, la solita vita riprende: rifare il letto pulire la cella, far ginnastica, leggere, studiare”.
Ci penso quando leggo il diario di Etty Hillesum, che salendo sul treno per Auschwitz cantando disse: mi aspetterete? Lei che sosteneva, in quel modo totalmente sbilanciato, totalmente femminile: “Io non ho la sensazione di essere privata della mia libertà e non c’è nessuno che possa farmi veramente del male”. E offrendo un pettinino rosa, un paio di scarpe quasi del numero giusto, un pezzo di rossetto, una carezza che non pesasse troppo su spalle già affaticate, rifletteva: “Noi donne siamo strane creature: basta una piccolezza a salvarci dalla follia. Perfino all’inferno. Sì, perfino all’inferno”.
Leone ha usato il suo ultimo tempo per Natalia, e scrivendo ha costruito il tempo futuro per lei senza di lui. “Se ti perdessi, morirei volentieri”
Ci penso quando leggo la più bella lettera d’amore e d’addio mai scritta, da Leone Ginzburg alla moglie Natalia Ginzburg, poco prima di morire per le botte delle SS nel carcere di Regina Coeli, scritta al lume di una lampadina troppo fioca e appesa troppo in alto, mentre Roma si risvegliava dalla notte e ricominciava a nascondersi e a resistere. Leone ha usato il suo ultimo tempo per Natalia, e scrivendo ha costruito il tempo futuro che lei avrebbe vissuto senza di lui:
“Ho ripensato, in questi ultimi tempi, alla nostra vita comune. L’unico nostro nemico (ho concluso) era la mia paura. Le volte che io, per qualche ragione, ero assalito dalla paura, concentravo talmente tutte le mie facoltà a vincerla e non venir meno al mio dovere, che non rimaneva nessun’altra forma di vitalità in me. Non è così? Se e quando ci ritroveremo, io sarò liberato dalla paura, e neppure queste zone opache esisteranno più nella nostra vita comune. Come ti voglio bene, cara. Se ti perdessi, morirei volentieri. (Anche questa è una conclusione alla quale sono giunto negli ultimi tempi).
Ma non voglio perderti, e non voglio che tu ti perda nemmeno se, per qualche caso, mi perderò io. Saluta e ringrazia tutti coloro che sono buoni e affettuosi con te: debbono essere molti. Chiedi scusa a tua madre, e in genere ai tuoi, di tutto il fastidio che arreca questa nostra troppo numerosa famiglia. Bacia i bambini. Vi benedico tutti e quattro, e vi ringrazio di essere al mondo. Ti amo, ti bacio, amore mio. Ti amo con tutte le fibre dell’essere mio. Non ti preoccupare troppo per me. Immagina che io sia un prigioniero di guerra; ce ne sono tanti, soprattutto in questa guerra; e nella stragrande maggioranza torneranno. Auguriamoci di essere nel maggior numero, non è vero, Natalia?
Ti bacio ancora e ancora e ancora. Sii coraggiosa.
Leone”.
Era il 5 febbraio 1944, Leone non è tornato, Natalia è stata coraggiosa, ha detto che dopo avere avuto tanta paura non era possibile averne più.
L’assurda challenge di cento pagine al giorno, il finale del “Conte di Montecristo” letto alle tre e mezza di notte. “Chissà se ci rivedremo mai!”
In tanti non sono tornati, ma ci hanno offerto il loro tempo per la nostra libertà. Il tempo che io uso tutta sbilanciata, storta, alla ricerca di qualcos’altro, il tempo che cambia così in fretta e la vita che conoscevi non c’è più, e la guerra non sta finendo, e il tempo già adesso a mio figlio non sembra abbastanza e lo sta usando per leggere Il conte di Montecristo.
Sono milleduecento pagine e lui ha lanciato a sé stesso questa assurda challenge da cento pagine al giorno (il giorno, d’estate, comprende soprattutto la notte).
Io un po’ tacevo, un po’ gli dicevo: ma non è esagerato? Lui diceva: è troppo bello mamma non mi stressare.
Ora che sono tornata da Ventotene, ora che la nave mi ha riportato sulla terraferma e il tempo ha ripreso immediatamente a scorrere in un altro modo, entro in casa diritta, decisa a non lasciarmi sbilanciare. Il mio letto è occupato da un sedicenne in mutande che legge con il ventilatore puntato addosso, e che ogni tanto seda le risse tra i gatti. La vita certo sarebbe facile se potesse sempre essere così, fermarsi qui, con il ventilatore acceso.
Cerco di non dire niente, di non rovinare tutto, e lui sibila: fratè (che sarei io quando mio figlio vuole dirmi qualcosa di importante): la libertà è come respirare, ti accorgi che l’hai persa solo quando ti senti soffocare.
Chi l’ha detto, Edmond Dantès? dico con nonchalance, per non dare troppa importanza a questa frase che mi trafigge il cuore.
No mamma, non mi stressare, l’ho detto io.
Sono stanca, ho le spalle scottate, vado a dormire, tu fai quello che ti pare.
Mi addormento sognando di nuotare, e poi sogno anche bambini piccoli che mi tendono le braccia e io non riesco a prenderli. A un certo punto sento un tonfo proprio accanto a me, mi sveglio urlando. Un ladro, un assassino, un gatto di cento chili? Il mio tempo è già finito e io ho fatto così poco. “Mamma, l’ho finito!”.
E’ mio figlio, mi sta puntando la torcia del telefono negli occhi, e io gli dico: ma che ore sono? Sono le tre e mezza, fratè non mi stressare vuoi che ti legga il finale di Montecristo oppure no?
Sì dai: leggimelo.
“‘Chissà se ci rivedremo mai!’ disse Morrel asciugandosi una lacrima.
‘Caro – rispose Valentine – il conte non ci ha forse appena detto che tutta l’umana saggezza era contenuta in queste due parole: Attendere e sperare!’”.
Mio figlio si alza di scatto e se ne va, con un gran fracasso di code di gatto calpestate al buio e mugolii di cane accaldato.
Attendere e sperare, e intanto esercitare questo sbilanciamento. Ecco che cos’è, per me, il tempo, questa responsabilità abissale.