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Thomas Mann, il prof. errante

Alberto Riva

Chissà se l’America di Trump lo accoglierebbe come fu accolto allora. Quanti sono gli intellettuali perseguitati oggi

Se Thomas Mann emigrasse oggi negli Stati Uniti invece di averlo fatto nel 1937 rischierebbe di finire a passeggio sulle spiagge vicino a Princeton invece che a insegnare nella famosa università come gli accadde a quel tempo. Forse vedrebbe il suo visto negato (salvo intervento di un giudice federale) o magari verrebbe semplicemente licenziato o mai assunto, vista la proposta dell’Amministrazione Trump di tagliare il 50 per cento dei fondi destinati alla ricerca universitaria (a Princeton sarebbero circa 210 milioni di dollari). Senza dubbio l’autore dei Buddenbrook sarebbe uno dei primi a essere colpito, in primis perché per poche lezioni all’anno percepiva uno stipendio altissimo e quindi chiaramente fuori budget, ma anche perché, come facevano i suoi nemici di allora – gli esponenti del Reich di Adolf Hitler lo consideravano a capo di una francamente fantasiosa “congiura bolscevica” – oggi sarebbe forse visto da Donald Trump come uno dei tanti “pazzi marxisti” che infestano gli atenei americani, o una presunta spia come gli studenti cinesi minacciati di espulsione, o addirittura come un antisemita, nonostante moglie e figli ebrei. Si potrebbe continuare a lungo con la distopia, ma è meglio fermarsi qui, anche perché tra le vicende attuali e la biografia dello scrittore di Lubecca, Premio Nobel 1929, più che di somiglianze sarebbe meglio parlare di paradossi, i quali però ci dicono molto dello scontro tra il potere e quei centri del pensiero che sono le università.  

 

          

 

In questo senso, è Harvard il filo che unisce i due piani temporali e su quel filo sta appeso Thomas Mann, che nel gelido Capodanno del 1937 si trovò a vergare una missiva, passata alla storia come la Lettera di Bonn, con la quale rispondeva al rettore di quella università il quale gli aveva appena comunicato la revoca della laurea ad honorem, dal momento che il 2 dicembre 1936 Hitler e i suoi accoliti gli avevano tolto la cittadinanza tedesca. Mann, dall’esilio svizzero, rispose: “Pregiatissimo Signor Preside, ho ricevuto la malinconica comunicazione, da Lei inviatami in data 19 dicembre. Mi permetta di risponderle quanto segue: la grave complicità in tutta la presente sciagura, di cui le università tedesche si sono rese colpevoli quando si fecero, per aver terribilmente frainteso l’ora storica, suolo produttivo delle potenze perverse che devastano la Germania moralmente, culturalmente ed economicamente – questa complicità mi aveva già amareggiato da un pezzo il piacere della dignità accademica un tempo conferitami, e mi aveva impedito di farne il minimo uso. Io porto oggi il titolo onorario di Dottore in Filosofia, perché l’Università di Harvard me lo ha di nuovo conferito, con una motivazione che, signor Preside, desidero non le rimanga ignota”, e qui Mann, non senza un filo di perfidia, gliela traduce dal latino: “… Noi, Rettore e Senato, con l’approvazione degli onorevoli Ispettori Universitari, in seduta solenne abbiamo nominato e proclamato dottore in filosofia honoris causa, conferendo tutti i diritti e gli onori legati a questo titolo, Thomas Mann, l’illustrissimo scrittore che, spiegando i problemi della vita a molti dei nostri concittadini, insieme con pochissimi contemporanei custodisce l’alta dignità della cultura tedesca”.

 

Alla revoca della laurea ad honorem, Mann risponde all’Università di Bonn accusandola di “grave complicità in tutta la presente sciagura”

                     

Le parole dello scrittore – che testimoniano la difesa da parte dell’università di un ospite straniero – suonano in tutta la loro drammaticità oggi che il rettore di quella stessa Harvard, Alan Garber, si è visto costretto a difendere il suo ateneo dalle minacce del suo stesso governo (blocco di 2,4 miliardi di dollari di finanziamenti, espulsione di tutti gli studenti e i ricercatori stranieri), in una specie di paradossale ripetersi della storia ma a ruoli invertiti, e cioè con gli Stati Uniti che abbandonano il ruolo di contrappeso alle tirannie, di porto che accoglie chi fugge, di luogo dove libertà e talento possono fiorire, che negano, insomma, il principio stesso dell’american dream. Curioso che ciò capiti esattamente nell’anno del doppio anniversario di Thomas Mann (150 anni della nascita, 70 dalla morte) e il ritorno in libreria della corposa e vivace biografia firmata da Tilmann Lahme, I Mann. Storia di una famiglia, pubblicata da Edt con la traduzione di Elisa Leonzio, che prende avvio proprio da quello scontro tra l’ormai apolide Mann (la Cecoslovacchia gli aveva conferito la cittadinanza, ma lui non ne usufruì mai) e il Terzo Reich: la lettera, che si può trovare integralmente nel bell’Oscar Mondadori Moniti all’Europa, era un impietoso, cristallino, acuminatissimo atto d’accusa a Hitler e Goebbels, e fece molta impressione quando gli organi di stampa europei la pubblicarono, specialmente laddove l’autore de La morte a Venezia scriveva: “Certo, non solo negli ultimi anni io provocai il furore di coloro che stavano al potere, col mio rimanere al di fuori, con le manifestazioni insopprimibili del mio orrore. Già molto avanti l’avevo fatto e dovevo farlo; perché prima della borghesia tedesca, oggi disperata, io vidi chi e cosa stava sorgendo (…). Basta pensare soltanto chi sono gli uomini a cui è dato il miserabile e casuale potere esteriore di negarmi la mia nazionalità tedesca (…). Dicono che io ho oltraggiato il Reich, la Germania, dichiarandomi contro di loro! Hanno l’incredibile audacia di scambiare sé stessi con la Germania! Mentre non è forse lontano il momento in cui la suprema preoccupazione del popolo tedesco sarà quella di non essere scambiato con loro”. La reazione, manco a dirlo, fu scomposta. Ernst Krieck, sulla rivista di regime Volk im Werden, definì Mann “un morto vivente”, il letterato “del declino, della corruzione, del marciume”, “un uomo senile” (sembra di assistere agli scambi di cortesie tra Donald Trump e Bruce Springsteen).

 

Sulla rivista Volk im Werden si definì Mann “un morto vivente”, Goebbels diede ordine alla stampa di non nominarlo più in alcun caso

                     

Goebbels diede ordine a tutta la stampa di “non nominare più in alcun caso Thomas Mann”, neanche per denigrarlo. I suoi libri vennero messi all’indice e bruciati, la sua casa di Monaco confiscata. Ma perché tanto odio? Mann aveva condannato l’ascesa delle camice brune fin da quando li aveva intravisti come una minaccia alla Repubblica di Weimar, della quale lo scrittore era diventato un difensore (accorato discorso del 1922 all’Università di Berlino) e poi, nel 1933, la conferenza Dolore e grandezza di Richard Wagner, allorquando scippa ai nazisti, saliti al potere, l’appropriazione indebita del compositore morto da cinquant’anni, che Mann definisce un “pessimista” al pari del filosofo Arthur Schopenhauer, e un “mitologo”, provocando spasmi lancinanti al führer quando, con sardonica sottigliezza, dice: “L’arte di Wagner è la più sensazionale auto esibizione ed autocritica della natura tedesca che sia mai concepibile, fatta in modo da rendere interessante il germanesimo anche per lo straniero più ottuso: occuparsi di lei con passione significa sempre anche occuparsi appassionatamente di quel tedeschismo che essa esalta in forma critico decorativa. In ciò sta il suo nazionalismo, ma questo nazionalismo è tanto compenetrato di estetismo europeo, da renderlo inetto a qualunque semplificazione”. E così comincia il suo esilio. La cittadinanza la perdono anche i sei figli, e poi la moglie e i suoceri ebrei, che anni dopo, scampano per miracolo alla deportazione, dopo essere stati spogliati di ogni avere.

Tutti i Mann sono compattamente antinazisti: sei figli, tre di loro vivono più o meno liberamente la loro omosessualità, tutti scrittori o musicisti, due finiranno suicidi (lo scrittore Klaus, l’autore di Mephisto, e il violinista Michael), una scamperà a un naufragio causato da un sottomarino tedesco perdendo il marito (Monika), una sposerà il germanista e romanziere italiano Giuseppe Antonio Borgese (Elisabeth), una sposerà per finta il grande poeta inglese W.H. Auden, si innamorerà dell’attrice dalla lunare bellezza Pamela Wedekind e scriverà saggi militanti e di successo sugli emigrati tedeschi (Erika), uno scapperà dall’Europa in fiamme per il rotto della cuffia, via Lisbona, dopo essere stato internato in un campo di prigionia della Repubblica di Vichy, il più engagé di tutti (Golo). Straordinaria la sua lettera a un’amica rimasta in Germania, a cui allega un ritratto recante, sul retro, un messaggio ai censori del regime: “G.M., nato il 27 marzo 1909: tipico esponente di razza mista e uomo inferiore. Probabili antenati negroidi. Figlio del famigerato autore di scarabocchi Th.M”

Gli Stati Uniti, a scaglioni, accolgono tutta la truppa, prima in una casa vittoriana sulla East Coast e poi in California, nella grande villa modernista sul mare dove Mann intende portare a termine la saga biblica in quattro tomi di Giuseppe, un’impresa non meno che wagneriana. Il tema-famiglia è, fin dai Buddenbrook, la scatola nera dove ribollono le sue fantasie e le sue ossessioni. Nel frattempo, il grosso del reddito arriva da faticosi tour di conferenze nelle maggiori università americane dove Mann parla dell’arte del romanzo tedesco, di sé stesso e della sciagura hitleriana, accolto ovunque da ovazioni e persino alla Casa Bianca, dove soggiorna due notti ospite di Roosevelt, che pure criticava per il suo attendismo nel prendere parte alla guerra che ormai infuriava in Europa – in egual misura, insieme ai figli, nel 1938 aveva duramente criticato l’appeasement di Neville Chamberlain definendo l’Inghilterra “la governante di Hitler”. 

 

Fin dal pontificato di Innocenzo III l’autorità politica tenta di regolare la vita delle università. Il primo movimento studentesco risale al 1229

     

E’ molto probabile che oggi nella Washington sotto l’incantesimo Maga l’attivismo antifascista di Mann non godrebbe della medesima festosa accoglienza. D’altra parte, fin dalle ambizioni universalistiche del pontificato di Innocenzo III, a principio del Duecento, l’autorità politica tenta di regolare la vita delle università. Il primo movimento studentesco risale al 1229, quando gli studenti dell’Università di Parigi se ne vanno dalla città per protesta contro le aggressioni dei parigini, governati da Bianca di Castiglia, che mal sopportavano quei tanti forestieri che frequentavano le aule sotto l’egida di papa Gregorio IX. E come dimenticare Padova, 8 febbraio 1848, quando gli studenti della prestigiosa università si ribellano all’occupante austriaco (che ne aveva uccisi un paio a schioppettate) e in tre giorni li cacciano dalla città, dando inizio alle danze risorgimentali, e così i tanti studenti che nel 1908 ingrossando le fila dei Giovani Turchi riescono a destituire il sultano Abdul Hamid II. Il fiume carsico dei moti universitari giunge fino a dare lo stoppino al ‘68, Columbia University e Berkeley, insomma la storia è nota. Certo, Trump è riuscito nell’impresa impossibile di innalzare il rettore (presidente nel caso) di Harvard a eroe studentesco.

 

La turca Asli Erdogan e il suo conterraneo Ahmet Altan, il russo Boris Akunin, l’iraniana Azar Nafisi. Il canto solingo e disperato di Sansal

                

Quanto agli scrittori, il passato non esiste, poiché di Thomas Mann costretti all’esilio ce ne sono anche adesso, e non pochi: la turca Asli Erdogan, autrice del notevolissimo Il mandarino meraviglioso (Keller), incarcerata e poi in esilio; il suo conterraneo Ahmet Altan, autore di Scrittore e assassino (e/o), condannato all’ergastolo e dopo alcuni anni rimesso in “libertà” (da leggere anche la risposta ai giudici che l’hanno condannato, intitolata Ritratto dell’atto di accusa come pornografia giudiziaria); il russo Boris Akunin (“agente straniero”), il “blasfemo” anglo-indiano Salman Rushdie (accoltellato quasi a morte mentre parlava davanti a un pubblico di lettori), l’iraniana Azar Nafisi, in esilio a Washington, che in Leggere pericolosamente (Adelphi) scrive: “La democrazia dipende da come ci poniamo nei confronti di avversari e oppositori, dal fatto che siamo nati per pensare e ripensare, per esaminare e riesaminare le nostre stesse posizioni (…). A me interessano tutti i modi in cui l’arte e la letteratura resistono al potere: non solo quello di sovrani e tiranni, ma anche a quello del tiranno che è in noi”; la scrittrice birmana Ma Thida e, ultimo in ordine di tempo, l’algerino Boualem Sansal, 75 anni, attualmente sparito in qualche oscura prigione dopo aver osato rimettere piede nel suo paese: ora esce da Neri Pozza il suo ultimo romanzo, Vivere. Il conto alla rovescia, un canto solingo e disperato. Sansal, che nel suo In nome di Allah, aveva “mannianamente” scritto: “Impegnati nelle nostre buone azioni progressiste e nelle commemorazioni storiche – avevamo anche i nostri eroi e martiri da onorare – prestammo un’attenzione distratta e condiscendente a quell’ondata di bigottismo venuta dal Medio Oriente tenebroso, che conoscevamo solo attraverso il cinema egiziano e le meravigliose canzoni di Fairuz e di Oum Kalthoum. Li guardavamo ammirati: negli occhi di quei ‘pazzi di Allah’ c’era una forza che sembrava in grado di smuovere le montagne (…). Poi li abbiamo visti moltiplicare le rivendicazioni sociali e culturali, fatte di divieti e obblighi molto precisi (…). Niente più mescolanza rivoluzionaria fra studenti e studentesse e abitini leggeri che donavano tanto alle ragazze”. Storie diverse, stili diversi, diversissimi atteggiamenti nei confronti della letteratura, ma tutti in realtà legati da un destino simile e ancora una volta paradossale: chi ama davvero il seme profondo del proprio paese è scambiato per chi più lo disprezza.

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