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a teatro

Sigfrido déjà-vu: bicchiere mezzo pieno (o mezzo vuoto) alla Scala

Alberto Mattioli

Il “Siegfried” attualmente in scena a Milano, regia didascalica di McVicar, trasforma Wagner in puro fantasy. Buona la compagnia, con un Volle e un Vogt in evidenza, ma la direzione di Young manca di originalità

Qualora abbiate bisogno di forgiare in cucina una spada home made (non si sa mai), il “Siegfried” attualmente in scena alla Scala potrebbe fornirvi un eccellente tutorial. Nel finale del primo atto, l’eroe compie diligentemente tutti i passaggi per rimettere insieme i pezzi di Notung, l’arma del defunto (nella “Walküre”) papà Siegmund, fra ventole, colate, stampi di terracotta. Ormai si è capito: questo  “Ring” scaligero con la regia di sir David McVicar è didascalico che più didascalico non si può, quasi da Wagner for dummies, anche se in effetti il gigante Fafner tramutatosi in drago viene a sua volta tramutato in uno scheletro taglia XXL, unica licenza dal libretto ma riuscita, insieme con un Mime “madro” petulante che ricorda le sciure milanesi “bene” che vanno a ritirare il pargolo all’asilo di via della Spiga. Tutto lo zoo wagneriano è al completo, dall’orso al cavallo, impersonati da aitanti mimi a torso nudo (mentre l’Uccellino della foresta – uccellina, è un soprano – sfoggia una cresta punk), le pelli ci sono, il corno anche, fuochi e fiamme idem, foresta quanta ne volete e anche antropomorfa. Insomma, siamo al puro fantasy, supportato peraltro da una recitazione piuttosto accurata che solo nel duettone finale scade a gestualità operistica standard. McVicar non si pone il problema se, casomai, con il suo  “Games of Thrones” Wagner non volesse dirci qualcosa della società, del mondo e della storia e se questo qualcosa abbia ancora un significato. La rinuncia a decodificare la metafora e il rifiuto della complessità, per cui la favola è una favola e basta, sono caratteristiche molto contemporanee. Stupisce quindi che a ogni titolo del suo  “Anello” il regista venga buato, e ogni volta di più, anche se venerdì a McVicar devono essere fischiate solo le orecchie, visto che non si è presentato alla ribalta.


Anche la direzione di Simone Young procede rassicurante sui sentieri di un Wagner ben fatto, ben suonato, ben calibrato e del tutto privo di interesse. Tutto déjà-vu, anzi déjà-écouté. Se poi il bicchiere di questa routine di alto livello vada considerato mezzo pieno o mezzo vuoto è da discutere. Nel complesso, buona la compagnia. Quando è in forma, Michael Volle gioca davvero in un altro campionato, e il suo Wanderer giganteggia. Idem Wolfgang Ablinger-Sperrhacke: personalmente, non sono troppo sicuro che la tradizione del Mime formato Spieltenor sia l’unica giusta, ma nella sua categoria anche lui è un fuoriclasse. Come Brunilde, Camilla Nylund esibisce qualche limite vocale ma anche diverse finezze: certo che il “Crepuscolo” è un’altra cosa. Infine, l’eroe. Klaus Florian Vogt continua ad avere un fisico e un timbro sorprendentemente adolescenziali. Manca un po’ di “peso” vocale, per esempio proprio nella forgia, però arriva alla fine stanco ma non stremato come succede quasi sempre, e in generale questo giovin Sigfrido dalla voce fresca e chiara è interessante. Bravo.

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