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letteratura

Nabokov, ovvero musica per chi vuole solo godersi la finzione dei fatti

Marco Archetti

L'autore russo celebra la finzione pura in “Re, donna, fante” e nelle lezioni su “Don Chisciotte”. Adelphi ripubblica la sua musica letteraria, lontana da autobiografie e moralismi

Faremo del nostro meglio per non cadere nel fatale errore di andare in cerca della presunta ‘vita vera’ nei romanzi”. E nemmeno di quella dello scrittore, aggiungiamo a questa frase, incipit del ciclo di lezioni che Vladimir Nabokov tenne sul “Don Chisciotte” ad Harvard nel 1952. E che Adelphi ripubblica in questi giorni insieme al bellissimo “Re, donna, fante”, “vispo bestione”, come lo ebbe a definire l’autore, secondo romanzo (russo) concepito tra il 1927 e il 1928 e pubblicato in quello stesso anno a Berlino da una casa editrice dell’immigrazione. Nabokov dirà che l’esilio, la miseria e la nostalgia “non influirono in nulla nella sua complessa ed estatica composizione”. Musica per le orecchie di chi ama la letteratura e non cerca – condensiamo le due frasi in una – la vita intima di chi scrive in ciò che scrive, men che meno pappardellata in forma di autofiction (o di mémoire, come ultimamente usano dire coloro che un soprassalto di decoro trafigge, ma mai abbastanza).


Musica per vecchi animali, dunque. E anche per giovani, se solo non si insegnasse a leggere per edificare l’anima e comprendere l’autore ma per godersi le sue bugie, allestite in un mondo autosufficiente quale un romanzo è, e mai debitorio ad alcun piano di realtà se non il proprio. Ma ormai godersi la finzione dei fatti sembra essere pretesa destinata a crollare di fronte ai fatti della finzione, e a un’evidenza: siamo tutti diventati lettori un po’ pettegoli, moralisti, incapaci di capire che un grande scrittore, se lo è, sceglie sempre di essere chiunque altro, cioè fortemente se stesso, in tutti i sensi dell’espressione meno che in quello autobiografico. Lo studioso Northrop Frye diceva che chi scrive è più una levatrice che una madre, e che se la creatura è viva reclamerà a gran voce di essere liberata “dai cordoni e dai canali di alimentazione dell’ego”. 


I due Adelphoni nabokoviani sono ovviamente consigliati con calore. Ogni paragrafo di “Re, donna, fante” offre innumerevoli spunti, ma questo è niente, qualsiasi cosa offre spunti, perfino un tweet. Perché offre, soprattutto, musica, cioè quel suono della letteratura che arriva e plana, sfiora, e dice la profondità quanto più sembra eluderla – lezione anche questa dimenticata, travolta dai flutti, dai cavalloni e dai frangenti di tanta prosa puerile, frignante, con tutto l’ombelico di fuori. Ma torniamo a noi. Per il citazionista collettivo Vladimir Nabokov è quello del formicolio tra le scapole (ci ha insegnato a leggere come si gode della musica, appunto). Per chi ne ha solo visto un paio di foto è un cacciatore di farfalle (secondo piacere della vita, secondo Nabokov stesso, dopo la scrittura). Per chi ne ama la prosa è l’uomo che è stato in grado di far letteratura respirando, e di scrivere cose come “il plumbeo fardello della stipsi” (diffidare sempre dei personaggi letterari che non hanno un corpo), “l’umbratile e umorosa humbertlandia”, o il mirabile catalogo degli autostoppisti nel secondo capitolo della seconda parte di “Lolita”, capolavoro insuperato anche per il latrante vituperio che continua a scatenare negli ayatollah di ogni genere, incapaci di leggere e capire un romanzo crudele, che parla della morte, mica del sesso. Ma soprattutto è lo scrittore di alcune tra le pagine che più ci sopravviveranno, e che sono spesso dedicate alle ragazzine, da “L’incantatore” (romanzo brutalmente riuscito, secondo Martin Amis) a “Lolita” (romanzo diabolicamente cumulativo, sempre secondo Martin Amis), da “Ada” a “Cose trasparenti” – Martin Amis ha scritto anche di questi due romanzi, ma eviteremo ulteriori citazioni.


“La mia tragedia privata, che non può e non deve riguardare nessun altro…”. Comincia così una notissima dichiarazione di Nabokov. Che poi confesserà il dolore dell’abbandono della lingua naturale, il russo, per un inglese “di seconda qualità”, privo di tutti gli elementi di cui un illusionista può servirsi per “trascendere il retaggio dei padri”. La letteratura, ci dice Nabokov, è inganno. Qualcosa che salta fuori dal cilindro di una lingua che serve per imbrogliare, più che per dichiarare. Per il puro gusto – con tanti saluti agli allevatori di significati – di inventarsi un coniglio.

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