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il diario
In viaggio a Hiroshima e Nagasaki nel 1958, cercando il senso del mondo “nuovo”
Nel secondo Dopoguerra il filosofo e scrittore tedesco Günther Anders, marito di Hannah Arendt, visita le due città e denuncia l’orrore atomico e l’urgenza di una nuova coscienza morale. Il suo diario riflette sul potere dell’immaginazione come strumento etico nell’èra tecnologica
Ha l’immaginazione una qualità morale? “Vedere, oggi, realmente è possibile solo chiudendo gli occhi; e realista, oggi, è soltanto chi ha fantasia bastante per raffigurarsi il domani fantastico”, annota il filosofo e scrittore tedesco di origini ebraiche, fra i più importanti del Ventesimo secolo, Günther Stern, alias Günther Anders, allievo di Heidegger e Husserl e, peraltro, marito di Hannah Arendt, ne L’uomo sul ponte. Diario da Hiroshima e Nagasaki e Tesi sull’età atomica (Mimesis). Di fronte a una realtà fantastica, la fantasia deve divenire “un metodo dell’empiria, organo di percezione effettivamente enorme”. Come sottolinea nell’Introduzione Micaela Latini, l’arte è per Anders l’accesso più perspicuo al reale e promuove il miglioramento dell’uomo, lo realizza moralmente. La riserva di senso di un’opera è la sua “Terra”, per dirla con Heidegger. Ma si può ancora parlare dell’esistenza di questo luogo oscuro, la Terra, come fucina di ponti lanciati al mondo? Possiamo ancora farci un’immagine misteriosa del mondo? Oppure dobbiamo decretare la sua vacuità, la sua inconsistenza? Stiamo giocando male, come Hamm in “Finale di partita di Beckett, una partita che sappiamo già persa? O, invece, questa dimora senza fondo che è la Terra è ancora capace di gettare un ponte di verità, di far udire il linguaggio che custodisce?
Nell’ambigua nostra epoca del tecnologicamente riproducibile, che stritola fra i suoi ingranaggi zolle e risacche di senso superstiti che s’insinuano fra le rovine di un paesaggio atomico, quasi mai accade di trovarsi al cospetto di un’opera che abbia in sé tale potenza da inaugurare un nuovo equilibrio fra Terra e mondo, ovverosia una nuova morale. Ma saremmo capaci di non-dominare? La corsa agli armamenti e la minaccia atomica rendono ognuno una preda o un assassino potenziale: da un momento all’altro, l’umanità potrebbe auto-annientarsi. Potremmo, forse, preferire l’annientamento alla schiavitù di uno statuto globale orwelliano? La posta in gioco non è solo la scelta fra totalitarismo e libertà, ma quella fra essere e non essere (Karl Jaspers).
L’inconcepibile è già accaduto. Di fronte all’enormità, quale Terra, quale paesaggio possono ancora sostenere il sistema-realtà? Nel 1958, a Tokyo, Anders, che è anche uno dei capostipiti del movimento antinucleare mondiale, partecipa al Congresso internazionale contro le armi atomiche e nucleari e per il disarmo, proponendo un codice morale dell’èra atomica. Nel Diario insiste, come rileva Norberto Bobbio nella Prefazione del 1961, sull’aspetto morale della questione. Pone l’accento sull’analgia e cecità di fronte all’Apocalisse, imputando al “dislivello prometeico”, ovvero alla discrepanza fra azione ed effetto e fra finzione e realtà nell’èra tecnocratica, la deresponsabilizzazione dello struzzo che mette la testa sotto la sabbia: quando, il 6 agosto del 1945, il pilota dell’aereo Straight Flush, l’ufficiale Claude Heaterly, incaricato di valutare le condizioni meteorologiche, dà il via libera all’Enola Gay per lo sgancio della bomba atomica su Hiroshima, è inconsapevole, non sa esattamente quello che sta facendo. Heaterly, con cui Anders intrattiene un folto carteggio (L’ultima vittima di Hiroshima, Mimesis), tenta più volte di togliersi la vita; viene internato, nel tentativo di renderlo alieno a una colpa che egli, però, sa essere reale. Avrebbe potuto non eseguire gli ordini. Qualcosa, in lui, non è stato alienato: ha, infatti, potuto immaginare un’alternativa, lanciare un ponte all’enormità.
L’uomo che Anders incontra sul ponte di Hiroshima, un sopravvissuto ridotto a un automa, avrebbe ancora le mani, un volto.