Il cielo a Hiroshima quel giorno di 75 anni fa

Il 6 agosto del 1945 la bomba atomica Little Boy fu sganciata dal B-29 Enola Gay. I funghi atomici sono rimasti infissi, senza studio e terapie, anche nel cielo d’Occidente. Un senso di colpa e di potenza raccontato soltanto da libri, film e canzoni

Francesco Palmieri

Se quel mattino del 6 agosto 1945 il cielo di Kokura non fosse stato sporcato dalle nuvole, avremmo scritto per settantacinque anni e scriveremmo oggi dei suoi morti, non di quelli di Hiroshima dove la bomba atomica Little Boy fu sganciata come scelta di riserva dal B-29 americano. Se il cielo di Kokura non fosse stato velato di nubi anche il 9 agosto seguente, avremmo scritto dei suoi morti, non di quelli di Nagasaki dove gli americani sganciarono il secondo ordigno che si chiamava Fat Man. Ragazzino e Ciccione, secondo le bislacche ironie delle guerre che s’alternano con enfasi concava alla retorica convessa dei Tirteo di turno.

 


Foto Ansa


    

Coi se e coi ma la storia non si fa, però rimane lecita la voglia di immaginare un mondo in cui avesse prevalso, quell’estate, la linea di Dwight Eisenhower e Douglas MacArthur, che quelle atomiche non le avrebbero buttate risparmiando circa 200 mila vite a Hiroshima e 80 mila a Nagasaki (nei “circa” si nascondono ossa sperse o illiquidite, identità dissolte e approssimazioni necessarie ad ammettere la scienza statistica). Sì che il Giappone imperiale si sarebbe arreso lo stesso, se non il 15 agosto qualche settimana dopo; né le sorti della guerra sarebbero cambiate ma la complessità della valutazione prevedeva, si sa, fattori geopolitici al di là della durata bellica. Sofisticate geometrie pur sempre umane, che perciò si spiegano alla fine persino con un cielo limpido o con le nuvole. Che belle giornate a Hiroshima e Nagasaki, che gliele invidia l’uomo di Kokura depresso al togliersi dal letto sotto quel cielo opaco anche ad agosto. Quando avrebbe conosciuto la miracolosità delle sue nubi non si sarebbe mai più affranto per grandine o tempesta né avrebbe istintivamente gioito di una radiosa mattinata. Perché nella vita non si può mai dire (i sussidiari per bambini, le zie vedove e i proverbi sottovalutati non raccontano banalità se suggeriscono di accontentarsi).

  

 

Il fungo di nebbia delle esplosioni di Beirut, l’altro giorno, ha ricordato quelle mattinate là: “Sembrava di essere a Hiroshima e Nagasaki”, hanno detto. Il Ragazzino e il Ciccione immortalati all’opera, fotografati per sempre perché trascorsi settantacinque anni di cui gli ultimi in un’orgia di video, immagini, animazioni quotidiane, ancora restano riconoscibili in qualsiasi parte del mondo.

   

Molto si studiò circa le reazioni giapponesi, che già aveva cominciato a sezionare nel ’44 l’antropologa Ruth Benedict su commissione del governo americano: Tu capisci come sono fatti e spiegaceli, fu il mandato per il suo straordinario libro Il crisantemo e la spada. E lei trovò che “la vulnerabilità dei Giapponesi di fronte a una sconfitta, un’offesa o a un’umiliazione li porta, come una conseguenza del tutto naturale, a tormentare se stessi, piuttosto che gli altri”. Lo spiegò agli sconcertati soldati americani contro cui non ci furono, dopo la resa, reazioni violente, risentimenti, ritorsioni, bensì sorrisi, cortesi saluti e l’accettazione piena dell’occupazione militare. Il fallimento della guerra aveva fatto capire ai sudditi di Hirohito “come la via dell’aggressione non fosse, dopo tutto, la più adatta per procurarsi onore” sicché l’abbandonarono come si fa con un vestito o uno strumento rotto che non serve più. Neanche venticinque anni dopo Yukio Mishima l’avrebbe accettato. Ma era minoranza.

   


Foto Ansa


 

Ci sarebbe voluta anche una Benedict alla rovescia che andasse a studiarsi gli americani con piglio antropologico (cui s’univa il residuale esotismo ottocentesco la cui ombra s’allungò sul Secolo breve nella valutazione delle “razze colorate”). Una Benedict dagli occhi a mandorla. Invece i funghi di Little Boy e Fat Man sono rimasti infissi, senza studio e terapie, nel cielo animico d’Occidente (se Jung avesse ragione, nel suo inconscio collettivo) come perenne effigie. Non c’è stata un’antropologia a sezionare quel senso di colpa e di potenza, ma un fiotto interminato di libri, film, canzoni e un altro parallelo di memorialistica e di moralistica, dai piloti dei B-29 maledetti agli scienziati che “lavorarono alla bomba”. Il pop e la fisica come ombrello e macchina da cucire. Testi heavy metal e dichiarazioni assai più heavy tipo quella di Robert Oppenheimer: “In un senso profondo che nessuna canzonatura a buon mercato potrebbe cancellare, noialtri scienziati abbiamo conosciuto il peccato”.

     

Bisognava combattere i “cattivi”, questo sì, eppure com’è strano che tanti anni dopo, a esprimere la massima empatia hollywoodiana per gli sconfitti, sia stato un Clint Eastwood con Lettere da Iwo Jima. Quelli di noi che vennero prima dei manga e degli anime erano avvezzi a considerare i giapponesi come il maestro della Benedict, l’insigne Franz Boas, i suoi indiani kwakiutl. Perciò le scatole coi soldatini nipponici, nella simmetria delle stanze, finivano spesso vicine a quelle dei pellerossa.

  

Già allora il fungo in cielo, congelato nelle istantanee dai libri delle elementari, si consegnava alla perennità irrisolta come la cupola scheletrita della prefettura di Hiroshima, che dovrà rimanere sempre in piedi sopravvivendo pure a quest’annata 2020, in cui tanti monumenti sono stati rovesciati a esecrazione di personaggi e idee divenuti polvere o storia.

  

Se quel giorno fosse stato meno terso, il cielo di Hiroshima. Duecentomila vite (e un circa) in più e chissà quante in meno a Kokura. Solo i pazzi chiederebbero alla statistica una stima non dei morti, ma di quanti sarebbero nati senza la bomba. Solo un pazzo immaginerebbe figli, nipoti e pronipoti delle vittime fino a oggi, eppure ogni strage è anche un colossale aborto di umanità futura per cui non si risponde solo agli uccisi ma a una stirpe che resta d’ombre: fantasmi mai concepiti che vagheranno sulla terra senza incarnazione finché qualcuno, sotto qualsiasi cielo anche di Beirut, avrà negli occhi il fungo di Hiroshima e Nagasaki.

 

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