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arte

Così il Papa chiese a Raffaello di dipingere la truffaldina Donazione costantiniana

Matteo Ricci

Nel 1518 Papa Leone X commissionò all'artista rinascimentale un affresco che celebrava la falsa Donazione di Costantino, smascherata già da decenni. Questo è un clamoroso caso di arte usata come propaganda, in piena sfida ai critici del potere papale

Le fake news non sono mica tutte da buttare; alcune sono belle balle che vanno con cura conservate ed esibite sub oculis omnium, senza scandalizzarsi per l’avvelenamento del pozzo della verità. Prendiamo i Musei vaticani: da cinque secoli nei loro spazi – al loro sorgere per nulla museali, bensì abitativi e d’ufficio dei pontefici – troneggia maestosa la più colossale bufala della storia della Chiesa e dell’occidente; era un po’ malconcia per il logorio del tempo ed è stata ora rimessa in sesto grazie a una formidabile impresa decennale, iniziata sotto Antonio Paolucci e conclusa con Barbara Jatta. Sono adesso ammirabili – coi loro colori squillanti e le figure nitide, senza sbiadimenti, inscurimenti e crepe e senza gli ingombri dei ponteggi – le quattro pareti più la volta della Sala di Costantino, l’Aula Pontificorum Superior, la più ampia delle celebri Stanze di Raffaello, quella di cui l’urbinate fece in tempo a realizzare solo i cartoni preparatori, prima della morte repentina e prematura, e che fu portata a termine dai suoi discepoli, Giovan Francesco Penni e Giulio Romano, i quali non se la sentirono però di proseguire la sperimentazione dell’affresco a olio avviata da Raffaello (sono di sua mano, come hanno clamorosamente confermato i restauri condotti con eccellenza da uno staff di prim’ordine – Paolo Violini, Fabio Piacentini, Francesca Persegati e il compianto Guido Cornini – le due allegoriche figure, a olio appunto, della Comitas e della Iustitia, nella cui esecuzione si è potuta riscontrare l’attitudine trial and error di Raffaello, che ha corretto subito i difetti delle sue miscele). Ma non è questo il focus che ci interessa ora.


La particolarità di questa mirabile panzana storico-politica vaticana è che essa è stata concepita dopo esser già stata smascherata decenni innanzi. L’intero ciclo pittorico sulle pareti racconta infatti in 800 metri quadrati di affresco i quattro episodi cruciali dell’avvento della Roma cristiana dopo la fine delle persecuzioni e del paganesimo: la visione della Croce, la battaglia vittoriosa di Ponte Milvio, il Battesimo di Costantino, la Donazione di Costantino. Il primo è un miracolo leggendario, il secondo è un fatto storico, il terzo è un episodio improbabile, il quarto ritrae l’impostura di cui ci occupiamo, sebbene allo stesso tempo documenti veracemente l’aspetto interno della antica basilica di San Pietro, dov’è ambientata la Donazione. Ma prendiamo le date: nel 1440 l’umanista Lorenzo Valla, un dotto curiale al servizio di vari signori e infine del Papa, redige il suo De falso credita et ementita Constantini donatione, in cui smonta filologicamente l’autenticità del presunto documento che “provava” la legittimità del potere temporale della Chiesa e la superiorità della sacra potestas rispetto a quella imperiale; ebbene, nel 1518, quasi 80 anni dopo, Leone X Medici commissiona a Raffaello la “dipintura” della più grande sala di rappresentanza del Papa, al secondo piano del Palazzo Apostolico, dove tutte le massime autorità ricevute venivano “avvolte” dall’iconografia esplicativa del potere pontificio, di cui il dono della città di Roma a Papa Silvestro da parte di Costantino inginocchiato era tangibile illustrazione. Un caso cristallino di arte come soft power.

Se dunque un’ingenua bona fide nella validità della Donazione non può essere davvero invocata per la scelta papale del 1518, perché allora decidere di propalare imperterriti al mondo una falsità che tutti sapevano ormai essere tale? Era alquanto chiaro – e la storia lo ha poi dimostrato – che quel fantomatico documento, concepito in ambienti carolingi verso l’VIII secolo, avrebbe giovato molto più ai nemici del papato che al papato stesso. Qui si entra nel campo periglioso delle ipotesi e la più plausibile è che, poiché i neonati scismatici luterani brandivano quel testo di Valla contro le nequizie vaticane, un istinto di reazione e di sfida romana abbia suggerito di commissionare quei temerari affreschi d’un “fatto” che già Dante aveva esecrato: “Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,/ non la tua conversion, ma quella dote/ che da te prese il primo ricco patre”. Eppure un retropensiero s’insinua nella mente del profano alla vista delle scene restaurate: d’accordo, il documento era deplorevolmente farlocco, ma che dire della sostanza storica? Al netto del fattore “cupidigia umana”, la Chiesa non aveva forse, soprattutto nei secoli delle invasioni barbariche, dovuto esercitare una supplenza civile di fronte al crollo e all’inesistenza delle istituzioni pubbliche? Spostarsi prego nella attigua raffaellesca Stanza di Eliodoro, dov’è Leone Magno che ferma Attila: non risultano proteste laiche per quella intromissione clericale.