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il libro

Andrea Long Chu contro i recensori servizievoli

Alfonso Berardinelli

"Authority" è un libro controcorrente che verte su due temi connessi: la crisi della critica e l'autorità. Connettere questi due problemi significa riconoscere che se la critica libera è in crisi oggi la ragione è nella sua scarsa autorevolezza

A proposito di critica letteraria e dei suoi attuali problemi con il suo pubblico, la sua identità e il suo stile, viene dagli Stati Uniti qualche buona notizia. Si tratta di un impegnatissimo e brillante libro intellettualmente denso e sofisticato, Authority. Scritti sull’avere ragione di Andrea Long Chu (NERO edizioni, pp. 325, euro 24). All’autrice è stato assegnato il premio Pulitzer per la critica e perciò mi metto a sfogliarlo per decidere se leggerlo subito o no. Il caso mi è propizio perché mi fa incontrare subito un capoverso che trovo meraviglioso: “Per la maggior parte degli studiosi universitari – parlo da persona in via di guarigione – la scrittura accademica è un genere professionale, non letterario, più simile a una memoria legale che a un romanzo. La rinomata astrusità di quella che chiamiamo ‘teoria’ di solito non è un effetto della raffinatezza intellettuale; più spesso è il prodotto di una persona che sta svolgendo il suo lavoro. Non lo dico per essere crudele, ma per riconoscere che gli accademici sono persone che lavorano e, come tutte le altre che lavorano, hanno un diritto inalienabile alla mediocrità” (p. 73). 


Facendo uso di quella che i greci chiamavano parresia, cioè schiettezza e libero parlare, l’autrice apre un saggio di una dozzina di pagine il cui titolo è non a caso “Uno schiaffo in faccia”. Questo stile è già di per sé una buona notizia e un incoraggiamento a vedere le cose per quello che sono. La vera saggistica critica, quella cioè che è un genere letterario e non un genere professionale, va distinta da quella prodotta nelle università di tutto il mondo: merce immancabilmente corredata e resa autorevole da note a piè di pagina e da sterminate bibliografie finali. Al punto che per riconoscere la saggistica letteraria, la saggistica degli scrittori, basta vedere se ci sono le note o no. Si tratterà di vera saggistica solo nel caso che manchino le note e altri apparati. E perché mancano? Mancano perché la naturale autorità, o meglio autorevolezza, di tale saggistica è dovuta esclusivamente alla qualità stilistica e argomentativa, non all’appartenenza dell’autore a una corporazione istituzionale.

Ecco, il libro di Andrea Long Chu verte su questi due temi connessi: la crisi della critica e l’autorità. Con la scelta di connettere questi due temi o problemi, mi sembra che il libro abbia fatto centro. Se la critica libera e idiosincratica è oggi in crisi, la ragione è nella sua scarsa, declinante e quasi nulla autorità che le viene riconosciuta. Di solito la saggistica letterariamente intesa trova ascolto esercitando una sua autorità quasi solo nel caso che i suoi autori siano già noti come romanzieri o poeti. Il saggista scrittore solo in questo caso lo si riconosce autorevole. Se invece è nient’altro che un lettore competente e autore di saggi, cioè un osservatore giudice del mondo in cui vive, viene sentito come autorevole solo nel caso che la sua scrittura sia di per sé ammirevole e sorprendente per l’originalità, l’acume e il modo inusuale di dire la verità, o di fare luce su realtà comunemente non percepite.


Condivido quasi in tutto forma e movente del libro di Andrea Long Chu, anche se a volte pratica quello che chiamerei “intelligentismo” virtuosistico: che forse è solo una vivace, ininterrotta e ansiosa consapevolezza di nuotare controcorrente nel suo demolire o tenere a bada molti deleteri luoghi comuni. Mi fermo perciò solo sulla questione dell’autorità della critica in un mondo culturale che nel 2000 incoraggia il romanzo come merce editoriale, ignora i libri e gli autori di poesia perché “non vendono” e considera critici utili solo quelli che fanno pubblicità, disprezzando e temendo quelli sempre più rari che osano giudicare i libri letti. La democratizzazione culturale cosiddetta, con l’emarginazione e la denigrazione della cultura di élite, spalanca le porte ai recensori servizievoli per vocazione e professione. Secondo Andrea Long Chu, la critica dovrebbe per sua natura non solo valutare il valore artistico dei testi, ma sentire il bisogno di essere anche critica sociale e culturale dei contesti da cui i libri nascono. Cita perciò come buoni precedenti anche Oscar Wilde, per il quale il critico è un artista, la cui autorità è tutta nella sua creatività intellettuale e nella sua libertà individuale. In conclusione: “Perché chiediamo al critico di avere autorità? (…) E’ perché siamo eredi di una storia in cui il critico è stato sempre inteso come l’incarnazione di una figura politica fondamentale”, capace in sé stessa di essere autorevole anche senza disporre di un’autorità stabilita e garantita da qualche potere istituzionale. La sua deve restare l’autorità di un individuo culturalmente libero. Con tutti i rischi che questo comporta. 

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