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a teatro

Alla Scala, con qualche défaillance, l'opera di Mozart ragazzino scritta per Milano

Alberto Mattioli

Debutto milanese del giovane Mozart riproposto in forma di concerto: interpretazioni altalenanti e solo due voci davvero convincenti. L’esecuzione, vivace ma irregolare, non regge il confronto con la storica incisione di Rousset

A quattordici anni, Mozart non era ancora il grande Mozart, ma era già Mozart. Lo dimostra Mitridate, Re di Ponto, la sua prima opera seria, magari un po’ convenzionale ma già con annunci e lampi del sublime che arriverà con Idomeneo. L’influsso dei colleghi italiani in odore di riforma come Jommelli, di cui Mozart a Napoli ascoltò Armida abbandonata poco prima di comporre Mitridate, si vede nel lusso dei recitativi accompagnati, alcuni davvero splendidi. L’opera, la prima delle tre scritte da Amadé per Milano, debuttò il 26 dicembre 1770 al Teatro Regio Ducale, bruciato cinque anni dopo anche con pettegolezzi e sospetti sull’arciduca Ferdinando d’Absburgo-Lorena, governatore della Lombardia per conto di mamma Maria Teresa, che pare lo detestasse e ne volesse uno nuovo. Infatti dal rogo, con grandeur assiro-milanese già tipica, scaturì la decisione di edificare la Scala. E qui domenica si è ascoltato Mitridate, quasi tutto (sforbiciati soltanto un po’ di recitativi secchi) ma in forma di concerto, una botta e via, con Les Talents Lyriques di Christophe Rousset. Ora, Rousset su quest’opera ha un formidabile concorrente: sé stesso. L’aveva infatti incisa, benissimo, venticinque anni fa con un cast formidabile, Dessay, Bartoli, Sabbatini, Asawa e Florez come secondo tenore, excusez du peu. I miracoli sono difficili da replicare e infatti live non è andata così bene. L’orchestra è sempre pimpante ma a tratti ruvida, i corni poi in serata non felice, e anche la direzione è parsa meno incisiva. Ed è curiosa la decisione di piazzare l’intervallo appena prima della fine del secondo atto, senza chiudere con l’unico duetto della partitura che, evidentemente, non sta lì per caso.


Il vero problema, però, è la compagnia. Mitridate è anche un esempio della scrittura vocale sempre più fiorita e sempre più acuta (Mozart ascoltò un soprano – Lucrezia Agujari detta la Bastardella, per la precisione – toccare il do6) che imperversava nella seconda metà del Settecento, con grande irritazione di Metastasio il quale, come un qualunque Melomane Medio, lamentava con Farinelli che non ci fossero più le voci di una volta. La morale è che o per queste opere si trovano dei virtuosi veri, oppure è meglio lasciarle perdere. Alla Scala ce n’erano solo due. Una è Jessica Pratt, in forma smagliante, inappuntabile negli sfrenati virtuosismi di Aspasia ma anche espressiva nella straordinaria cavatina patetica del terz’atto, “Pallid’ombre”. L’altra, al netto di qualche suono un po’ fisso, è Olga Bezsmertna come Sifare: il loro duetto postdatato, il vertice della serata. Ma Rose Neggar-Tremblay, interessante timbro contraltile, è ingolata e non troppo agile, e a mio modo di vedere per Farnace sarebbe meglio un controtenore, mentre Levy Sekgapane, Mitridate, è completamente sovrastato dalla parte, sia nelle arie di furore che nel difficilissimo canto “di sbalzo” della cavatina. Discreti gli altri e curioso ma tipico della precedente gestione del teatrone che nella locandina di un’opera seria italiana alla Scala non ci sia un solo italiano. Teatro pieno e applausi, anche se all’intervallo molti hanno scelto la libertà. Tutto sommato, la cosa più divertente di una serata abbastanza moscia sono stati i tre giovanotti nel penultimo palco di second’ordine a destra che per tutta l’opera l’hanno ballata, cantata e mimata. Erano così invasati che tutti speravano che a un certo punto si sarebbero catapultati sul palcoscenico, come i castrati arrabbiati nella mitica scena del Marchese del Grillo. E invece nemmeno questo, peccato.

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