Alasdair MacIntyre nel 2012 (da un video di Nicola Center for Ethics and Culture)

(1929-2025)

In morte di Alasdair MacIntyre

Sergio Belardinelli

La grande domanda sul bene dell’uomo in quest’epoca di crisi resta uno dei punti centrali delle riflessioni del grande intellettuale scozzese, morto a novantasei anni

Alasdair MacIntyre è morto; aveva novantasei anni; è stato uno dei pensatori più importanti del nostro tempo; mi piace pensare che sia morto “vecchio e sazio di giorni”. Da quando, più di quarant’anni fa, lessi Dopo la virtù, certamente una delle sue opere più importanti, egli è diventato per me un riferimento imprescindibile e addirittura un alibi per il mio stare sempre a mezza strada tra la filosofia e la sociologia. 

Sono almeno tre le questioni fondamentali, oggi particolarmente scottanti, sulle quali MacIntyre ha gettato una luce particolarmente illuminante: la prima riguarda la natura dell’uomo, la seconda la virtù e la terza il bene comune. Parafrasando il celebre incipit di Dopo la virtù, si potrebbe dire che rispetto alle suddette questioni sembra davvero che la nostra cultura sia passata attraverso una “catastrofe” che ne ha devastato la memoria. Ciò che resta, come macerie, sono alcune parole, termini etici valutativi, quali “buono”, “cattivo”, “giusto”, “ingiusto”, “bene comune” o espressioni deontiche con cui i superstiti indicano ai loro simili che cosa “debbano” fare in determinate circostanze. Ma ciò che è scomparsa è la concezione dell’uomo dalla quale questi termini traevano il loro significato; è scomparso il contesto socio-relazionale all’interno del quale la vita umana appare ancora come la vita di un “io”, che non è soltanto un fascio di ruoli o una qualche “abilità professionale”, ma una vita unitaria, una vita intera, una biografia valutabile come un “tutto”. 

Le pagine di Dopo la virtù sull’identità narrativa dell’io e quelle di Enciclopedia, Genealogia e Tradizione sull’importanza delle tradizioni sono formidabili; lo stesso si può dire di quelle sulla fragilità che ritroviamo in un’altra opera, Animali razionali dipendenti, dove, rispetto all’idea dell’uomo autonomo e autosufficiente celebrato da molta filosofia moderna, MacIntyre, da un lato, richiama l’attenzione sulla “dipendenza” che contraddistingue certe fasi della vita umana, ad esempio quando si è bambini, vecchi o malati, e dall’altro esalta la virtù della misericordia, come “giusta generosità”, estesa dall’ambito ristretto dei nostri vicini, parenti, amici o concittadini, diciamo pure della nostra comunità, fino a tutti gli uomini del mondo. Sullo sfondo, implicitamente o esplicitamente, incontriamo sempre la stessa domanda: in che cosa consiste il bene dell’uomo?

Certo in un contesto culturale come il nostro, dove ormai non si fa altro che ostentare le diverse, a volte diversissime concezioni del bene che lo contraddistinguono, una tale domanda può risultare irritante. Sta di fatto, però, che proprio la crisi moderna potrebbe aiutarci a riscoprirne la centralità, non soltanto etica, ma sociale e antropologica. L’opera di MacIntyre ha aperto in questo senso una breccia decisiva. Egli ci ha fatto vedere come le “pratiche” della nostra vita (quello di “pratica” è un altro concetto fondamentale che dobbiamo a lui) non esprimono soltanto abilità tecniche o professionali, ma richiedono sempre anche l’esercizio di determinate virtù. Non posso diventare un buon pianista, un buon calciatore o un buon pasticciere senza esercizio, fatica, perseveranza, onesta nel riconoscere chi è più bravo di me e altro ancora. Sono inoltre le virtù che, aiutandoci a far bene qualcosa, sostengono quelle tradizioni che forniscono sia alle pratiche sia alle nostre esistenze individuali il loro necessario contesto storico. 

Dobbiamo riconoscere che questa riabilitazione della virtù fa ancora molta fatica a far presa nella cultura contemporanea. Meno ancora riusciamo a pensare l’uomo come un essere dotato di un certo telos. Per il fatto che siamo esseri liberi, esseri che cioè possono realizzare ma anche mancare il loro telos, cosa che non accade agli altri animali, né ai fiori, ci siamo purtroppo convinti che questo telos non esiste. Ognuno brancola nel buio e si arrangia come può. MacIntyre ci ha sempre esortati invece a non demordere, a continuare a cercarlo: un’esortazione di cui gli saremo sempre profondamente grati. 

 

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