
Facce dispari
Luca Lucchesi, il kyudo e lo spirito: “La via dell'arco per conoscere se stessi”
E' tra i pionieri dell’Accademia Romana che raduna gli assidui e schivi praticanti dell’arte giapponese: "Il kyudo è un’esperienza spirituale, la ricerca della natura originaria della mente. Non si mira con gli occhi ma con tutto il corpo e certe volte ci esercitiamo bendati. Se la forma mentale è corretta, la freccia arriverà dove deve arrivare"
“Vibrerò senza quasi mirare la mia freccia,/ se la corda del cuore non sia tesa:/ il maestro d’arco zen così m’insegna/ che da tremila anni Ti vede”. Cristina Campo compose questi versi nel 1954 e conosceva bene il dottor Placido Procesi, cui è intitolata l’Accademia Romana che raduna gli assidui e schivi praticanti dell’arte giapponese del kyudo.
Cominciarono i primi nel 1981 a esercitarsi nella Via dell’arco tradizionale, ora ospitata in un “dojo” nei dintorni di Nepi che questi appassionati hanno edificato tavola su tavola e battezzato Waseikan (il luogo della pace armoniosa). L’Accademia nacque per volontà di Procesi, morto nel 2005. Apparteneva alla rarefatta specie di medici devoti tanto a Ippocrate quanto a Minerva, scienziati umanisti che non scrutavano solo le analisi ma l’animo dei pazienti. Succedeva in una Roma dove, prima di diventare agibile e spesso illusoria, la conoscenza dell’oriente era incoraggiata da irripetibili figure cui diede ricetto, più ancora dell’università, l’Istituto per il Medio ed
Estremo Oriente di Giuseppe Tucci a Palazzo Brancaccio (un superstite di quei formidabili studiosi, l’indologo Raniero Gnoli, è mancato il 5 maggio scorso).
Luca Lucchesi, romano, sessantadue anni, è tra i pionieri dell’Accademia assieme al fratello minore Giorgio che ne è il presidente. E ne racconta il “mito fondativo”.
Come germinò la vostra scuola di kyudo?
Fu nel 1979, quando una delegazione di maestri della città di Kobe venne a Roma per tenere una dimostrazione. C’era tra loro un anziano arciere, Junichi Yamamoto, che partecipò al lancio rituale delle frecce e subito dopo s’accasciò sotto gli spalti dove sedeva
Procesi. Il dottore si precipitò a soccorrerlo e capì che il maestro era gravemente infartuato ma non aveva voluto interrompere la cerimonia. Lo portarono in ospedale e Procesi vegliò al suo capezzale tutta la notte, mentre in una saletta i giapponesi restarono in meditazione fino all’alba, quando il maestro spirò. Al figlio di Yamamoto, che gli regalò l’arco e le ultime due frecce tirate dal maestro, Procesi promise: “Pianteremo quest’arco di bambù e ne faremo nascere una foresta”. Così fu. Il capo delegazione, Osamu Takeuchi, sostenne i progressi della nostra Accademia negli anni successivi. Ci rifacciamo al lignaggio di Kenzo Awa, lo stesso del filosofo Eugen Herrigel autore di “Lo zen e il tiro con l’arco”.
Quanti siete attualmente?
Una trentina, probabilmente la scuola con più praticanti fra le dodici in Italia. Siamo gli unici in Europa a contare tre graduati secondo i “dan” della nomenclatura giapponese e abbiamo allievi di diverse età, dai ventenni ai più maturi: il più anziano compirà ottant’anni
a gennaio e ci sono molte donne. Furono ammesse al kyudo grazie a una concessione imperiale solo dopo la Seconda guerra mondiale, quando gli americani proibirono agli uomini nipponici la pratica delle arti marziali. L’apporto femminile salvaguardava la
continuità delle scuole.
Qual è il senso del kyudo? Cosa rappresenta quel bersaglio a ventotto metri? Chi fa più centri è più bravo?
Il kyudo è un’esperienza spirituale, la ricerca della natura originaria della mente. È necessario acquisire la tecnica ma per non preoccuparsene più, finché la freccia non parta da sé. Non si mira con gli occhi ma con tutto il corpo e certe volte ci esercitiamo bendati. Se la forma mentale è corretta, la freccia arriverà dove deve arrivare.
Partecipate a competizioni sportive?
Sì, nel kyudo moderno ci sono le gare. Non si tiene conto solamente dei centri ottenuti, ma dello stile. I campionati del mondo si svolgono ogni quattro anni: l’ultima volta non abbiamo ottenuto piazzamenti, ma nel 2018 fummo primi tra gli europei e terzi dietro a
Giappone e Taiwan.
Cosa cerca nell’arco?
La conoscenza di me stesso, che si traduce nella vita quotidiana in maggiore consapevolezza grazie al controllo del respiro, alla meditazione e al rilassamento muscolare, essenziali nel kyudo. Senza contare la bellezza dell’arma e del vestiario. C’è anche chi vi si dedica con spirito sportivo o per passatempo, ma per me è un modo di vivere in una tradizione. La strada senza fine verso la perfezione inarrivabile.
Qual è la differenza con altre arti marziali?
Che il gesto è completo. La freccia penetra nel bersaglio. Però più che “marziale” mi piacerebbe definirla un’arte “minervale”, come suggeriva Procesi.
Quanto è lontana la via giapponese dalla nostra mentalità?
Rileggiamo il quinto libro dell’”Eneide”: in Sicilia, ai giochi funebri in onore di Anchise, per la gara di tiro con l’arco una colomba viene legata con la corda a un palo. Il primo contendente centra il palo, il secondo colpisce e spezza la corda, il terzo trafigge la colomba che è volata via; ma il quarto, che è il re Aceste, non avendo più bersaglio mira verso il cielo dove la saetta s’infiamma come una cometa. Enea assegna a lui la vittoria, perché quel tiro senza obiettivo ha conseguito un effetto superiore. Questa è la tradizione
occidentale. Il kyudo la risveglia. E forse molti non sanno che un arciere giapponese ha tirato proprio nel Foro Romano.
Chi?
Si chiamava Tanaka Mazutaro. Nel 1899 era ospite dell’archeologo Giacomo Boni e si trovò presente pure alla scoperta del Lapis niger. C’è una sua fotografia mentre tira con l’arco, in pantaloni e bretelle, alla Basilica di Massenzio. Sarebbe simbolicamente bello se
là, nel centenario della morte di Boni, volassero un’altra volta le frecce del kyudo.