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In libreria

Con “Feh”, Shalom Auslander ridefinisce qualunque concetto di autofiction

Marco Archetti

Attraverso la Bibbia, lo scrittore statunitense riesce a narrare di sé mettendo sempre al centro gli altri. Il ritorno in libreria con un'opera che sventola come una bandiera e parla di dolore senza essere addolorato, raccontando un'infanzia senza essere retrospettivo

Ripercorrere la propria vita attraverso la Bibbia e scoprire le ragioni di una disfatta: ladies and gentleman, Shalom Auslander è tornato. In alto i calici, perché “Feh - Che schifo la vita” (Guanda, 368 pp., 24 euro) è la sua opera migliore, animata da un coraggio così festoso e screanzato da ridefinire qualunque concetto di autofiction – in Italia l’accezione è quasi esclusivamente gemebonda. Feh è un’espressione di disgusto in yiddish, una specie di bleah, ma in realtà siamo di fronte a un libro felicissimo, che sventola come una bandiera, che parla di dolore senza essere addolorato, che racconta un’infanzia senza essere retrospettivo, mentre l’autore narra di sé mettendo sempre al centro gli altri: i figli, gli amici, il lavoro, e poi Orli, donna indimenticabile. E senza gusto teppistico, ma con l’efferata razionalità di ogni serio intento comico, sa ri-raccontarci la Bibbia mettendo al centro la domanda delle domande: un’educazione religiosa è compatibile con la felicità?

Shalom Auslander è nato e cresciuto a Monsey, New York. E da “Il lamento del prepuzio”, suo primo romanzo, è convinto che Dio ce l’abbia personalmente con lui. “Sono la sit-com preferita di Dio,” arriva a immaginare, e si figura il Creatore stravaccato sul divano coi popcorn mentre se la ride dei suoi tentativi maldestri di stare al mondo in modo decente, senza cadere sgangheratamente culo in terra, evitando le figuracce più penose. Quando ci riesce (poche volte) Dio si annoia, allora interviene, schiaccia un pulsante e, per esempio, gli ammazza Philip Seymour Hoffman. Dell’attore, con felicità quasi hrabaliana, Auslander regala questo fotogramma: “Lui gettò la testa all’indietro e rise, e quella risata fece oscillare le insegne del negozio, e scattare tutti gli allarmi delle automobili, riempì le strade di SoHo, viaggiò fino a Midtown dove fece tremare le finestre dei palazzi, fece tremare la città e tremare il mondo, e io ero sicuro che se fossi riuscito a ridere così, anche solo una volta nella mia vita, non avrei mai più pianto”.

E invece piange, Shalom Auslander. Ma sempre fuori scena. Perché in scena, per fortuna, c’è tutto il resto, cioè personaggi, passato e presente, ossessioni, remoti ricordi di Penthouse e la scoperta del mondo perfetto delle femmine, quelle di Victoria’s secret. Poi i conti con la realtà: come si fa a sopportare il proprio corpo e le proprie orrende fattezze interiori ed esteriori?

In “Feh” lo psicoanalista gli fa un discorsetto. “Tutto è colpa tua”, gli dice per scuoterlo. “Tu sei la causa di tutto il male del mondo, di tutto il dolore di tua madre, di tutta la rabbia di tuo padre. Tu sei sempre il cattivo”. E Auslander: “Questa è la mia storia, e non ho intenzione di cambiarla.” Lo psicoanalista lo corregge: “Questa è una storia. La loro. Quella che ti hanno raccontato”. Protagonisti, i due cattivi. “Mio padre”, conferma lo scrittore, “era come Dio: chiassoso, violento, reazionario”. Materiale per una saga della vergogna: “Mio fratello si vergognava di mia sorella perché era sovrappeso ed era sorda da un orecchio, e mia sorella si vergognava talmente di sé stessa che di notte faceva irruzione in cucina, mangiava tutti i brownie di Shabbos e nascondeva i vassoi sotto il letto. Io mi vergognavo di tutto: di un padre violento, di una madre triste, di un fratello crudele, di una sorella malata, e dei miei desideri”. E del corpo. Auslander descrive il proprio con spietato realismo: materiali di bassa qualità, cattive proporzioni. E del resto il libro comincia con un ricovero, il pancreas dello scrittore al collasso per effetto dei liquami ingurgitati per dimagrire. Non è finita. “Non sono un grande fan della mia faccia”, rincara Auslander, “e sorridere non fa che peggiorare una situazione già pessima. Ho troppa faccia, questo è il problema. Quando sorrido tutta quella faccia in più non trova posto e tracima ovunque”.

Anche scrivere fu un grave peccato. A liberarlo, l’uomo che scambiò sé stesso per un insetto. “Franz Kafka era il detenuto nella cella accanto alla mia”. Commovente la dichiarazione d’amore di Auslander: “Batteva sul muro comune per farmi capire che non ero solo. Questo, avevo pensato, è la scrittura”.
 

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