Foto ANSA

magazine

Deve prevalere il testo o il gesto? Da Eduardo a De Simone, le mille facce del teatro napoletano

Francesco Palmieri

Declamazione o recitazione naturale, il mondo senza tempo delle fiabe o quello contemporaneo della borghesia. Ma “c’è spazio per tutti” nei cinquant’anni della “Gatta Cenerentola”

Il prossimo saranno cinquant’anni che una celebre gatta s’aggira per Napoli. Ora a lei s’accompagna il fantasma del suo autore, Roberto De Simone, morto il 6 aprile scorso nella città con cui spesso litigò ma che mai volle abbandonare. Quando andò in scena la prima volta il 7 luglio 1976, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, La gatta Cenerentola conseguì un clamoroso successo e levò il sipario su un altro modo di far teatro, con quel “melodramma nuovo e antico” che richiamava i “cunti” secenteschi di Giambattista Basile e la lingua barocca delle fiabe. Un mondo lontanissimo da quello raccontato da Eduardo, illustre antecessore ma in tutt’altro genere di rappresentazione, nei cui confronti De Simone aveva inasprito le critiche negli ultimi anni malgrado ai princìpi della carriera avesse anche collaborato con lui.

 

Quando andò in scena la prima volta nel 1976, al Festival di Spoleto, “La gatta Cenerentola” levò il sipario su un altro modo di far teatro

                

 

Nella città che pure, secondo una poesia di Eduardo, “è ’nu teatro antico, sempre apierto”, dove la gente “scenne p’’e strate e sape recità”, ci sono più poetiche possibili e Roberto De Simone contrappose il suo teatro del gesto al teatro del testo, quello senza tempo a quello che guarda al proprio tempo; oppose la declamazione alla recitazione naturale, l’eco delle timbriche antiche alle voci microfonate e sancite per sempre nelle registrazioni televisive. Che se hanno immortalato le opere di Eduardo (e anche qualcuna delle sue) non possono restituirci la testimonianza di attori e autori della tradizione napoletana precedente, la cui eco s’è dissolta per mancanza di documentazione audiovisiva. Al loro linguaggio robusto e succoso Eduardo aveva preferito un’altra lingua più proponibile al pubblico nazionale, mentre De Simone recuperava quel perduto idioma dopo avere catturato i canti popolari delle campagne e dei musicanti urbani, dei devoti ai vari culti delle Madonne tra paganesimo e cristianità, così lontani dai tinelli borghesi dove Eduardo ambientava laicamente tante delle sue commedie. Ma più che con Eduardo, il maestro ce l’aveva con “l’eduardismo” nella declinazione “caffè e ragù”, con un naturalismo che seppelliva il teatro in cui la finzione era funzione. Come un rito, come una rappresentazione sacra dove i sogni non sono frantumati dal realismo.

 

                

 

Se De Filippo proveniva dall’illustre scuola di Scarpetta, suo padre naturale che avrebbe sorpassato senza ucciderlo, a differenza di Scarpetta che s’era vantato di avere ucciso il Pulcinella di Antonio Petito, De Simone discendeva da stirpe meno insigne ma comunque teatrale, nipote di attori popolari e figlio di un suggeritore. Se quella di Eduardo fu, come scrisse il fratello Peppino, “una famiglia difficile”, la famiglia De Simone espresse un’indole bizzarra: sua zia Olimpia, rinunciando a un avvenire brillante sul palcoscenico, si diede con successo alla medianità e il suo caso fu studiato dal più illustre clinico di Napoli, Antonio Cardarelli (dal quale dopo morto lei attingeva ricette per i parenti infermi grazie alla scrittura in trance). Eduardo, da drammaturgo già affermato, curò di mantenere vivo il repertorio scarpettiano; De Simone, musicista di formazione, piccolo pianista prodigio, s’ispirò all’antropologo Ernesto de Martino e fondò la Nuova Compagnia di Canto Popolare da cui sarebbe germogliata La gatta Cenerentola.

 

De Simone aveva catturato i canti popolari delle campagne e dei musicanti urbani, così lontani dai tinelli borghesi di Eduardo

                    

 

Nella città sempre disposta a praticare la contrapposizione, forse perché le mancano due squadre di calcio per sublimare questa tendenza allo stadio, dopo la morte del maestro è riecheggiata la tentazione dello schieramento fra eduardiani e desimoniani. E’ una partita che però non si potrà mai disputare. Eduardo è indiscutibile come san Gennaro, la Sirena e Maradona, mentre De Simone ora è un fantasma con cui le istituzioni e la cultura napoletana dovranno fare i conti – e la pace – dopo le solenni esequie celebrate in Duomo dal cardinale Mimmo Battaglia. Cominciando dall’eventuale destinazione museale della sua casa in via Foria, nel palazzo nobiliare al numero 106 dove Luciano De Crescenzo ambientò il film Così parlò Bellavista. E’ stato già fatto con l’abitazione di Roberto Murolo al Vomero, aperta al pubblico da febbraio scorso salvando ricordi e chitarre del crooner partenopeo. Il sindaco Gaetano Manfredi ha auspicato la stessa sorte per casa De Simone, che contiene 47 mila pezzi tra oggetti, antiche partiture, copioni, fotografie e materiale registrato, già vincolati dalla Soprintendenza archivistica e bibliografica della Campania. 

 

Ma più che Eduardo, il maestro ce l'aveva con “l'eduardismo", con un naturalismo che seppelliva il teatro in cui la finzione era funzione

                      

 

Specializzata nell’arte di omaggiare più i morti che i vivi o i primi meglio dei secondi, come è accaduto per le sovrapposte celebrazioni di Pino Daniele a marzo scorso, la città è stata bollata come “ingrata” da uno dei più illustri amici di Roberto De Simone. All’indomani della sua morte, Riccardo Muti si è dichiarato “affranto e arrabbiato” perché “lui ha dato tanto a Napoli, Napoli non ha ricambiato”.

Non che per Eduardo, a suo tempo, fosse stato tutto un idillio, se solo si ricorda la sua famosa esortazione ad abbandonare la città (“fujtevenne”), l’accoglienza che la sua Scuola di drammaturgia trovò al Teatro della Pergola a Firenze o la scelta del “buen retiro” di Montalcino per tradurre La tempesta di Shakespeare, come ha sottolineato Luciana Libero in una summa della nuova drammaturgia napoletana aggiornata al 2018 a trent’anni di distanza dalla prima pubblicazione con un titolo significativo: Dopo Eduardo. Perché, volente o nolente, tutto il teatro napoletano ha dovuto e dovrà forse fare i conti con la figura di De Filippo, per richiamarla o allontanarla. Ed è significativo che alcune opere distanti dalla sua intonazione vengano ancora riproposte perché intanto sono assurte a classici anche oltre i confini della città, come Uscita di emergenza di Manlio Santanelli e Scannasurice di Enzo Moscato, protagonisti originali della “nuova drammaturgia napoletana” assieme ad Annibale Ruccello, il quale mosse i primi passi sullo stesso terreno degli studi antropologici di De Simone e lasciò un capolavoro, Ferdinando, consegnato ormai alla storia del teatro. Solo col tempo si saprà se classici lo diventeranno per esempio anche i lavori di Mario Gelardi, fondatore del Nuovo Teatro Sanità, di Fortunato Calvino, di Massimo Andrei, che ha giocato con i miti ancestrali in Favole del mare.

 

Il sindaco Manfredi ha auspicato la destinazione museale per casa De Simone, 47 mila pezzi tra partiture, copioni, fotografie e registrazioni

                     

 

Forse la verità, senza cadere nel gioco facile delle contrapposizioni, è che “c’è spazio per tutti”, come dice Luca De Fusco che fu alla guida del Teatro Stabile di Napoli restituendogli la meritata importanza nazionale, e che proprio in queste settimane sta lavorando alla complicata “voce”, commissionatagli dall’Enciclopedia Treccani, sul rapporto tra la città e il teatro per i 2.500 anni di Partenope. “C’è il teatro del gesto e quello di scrittura, ci sono Eduardo e De Simone, Ruccello e Moscato. Nessuna faziosità si giustifica perché sono tutte fazioni felici, espressive di una vivacità artistica che non s’è mai spenta”, spiega De Fusco. “Vale anche per gli attori: da Silvio Orlando a Lina Sastri, da Mariano Rigillo a Isa Danieli e Geppy Gleijeses c’è una fertilità invidiabile altrove. E l’offerta teatrale di prosa è superiore persino a quella di Roma che ha il triplo degli abitanti”. De Fusco rifiuta la dicotomia tra Eduardo e De Simone: rimarca la vitalità del primo e smorza le polemiche sulla “ingratitudine” di cui avrebbe sofferto l’altro. “Posso anticipare, da direttore artistico della Fondazione Teatro di Roma, che Sabato, domenica e lunedì sarà lo spettacolo di punta della prossima stagione, perché Eduardo funziona sempre e non soltanto in Italia. Quando portai questa commedia a Mosca, nel 2018, riscosse un successo strepitoso: i suoi meccanismi drammaturgici funzionano perfettamente anche in lingue e tradizioni diverse. E’ come Pirandello”, considera De Fusco, “e direi che è passato il tempo di utilizzare l’aggettivo ‘borghese’ secondo un’accezione negativa”.

 

“Nessuna faziosità si giustifica perchè sono tutte fazioni felici, espressive di una vivacità artistica che non s'è mai spenta”

                         

 

E’ stata davvero così irriconoscente la città con De Simone? Sì e no. Lasciato solo nelle sue battaglie culturali, una per tutte il salvataggio della biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Majella di cui fu direttore, già direttore artistico del Teatro San Carlo dove fu fautore di grandi recuperi di gioielli settecenteschi (basti citare il Flaminio di Pergolesi, che si poté realizzare grazie al ritrovamento delle parti mancanti dell’opera compiuto dal maestro Marcello Panni), De Simone avrebbe probabilmente meritato il laticlavio al pari di Eduardo. Perlomeno un’attenzione maggiore all’ampiezza dei suoi lavori, ma non solo a Napoli: è stupendo il necrologio pubblicato dalla Einaudi per ricordare “l’artista poliedrico, musicista, scrittore, uomo di teatro impareggiabile”, per onorare la sua filologia e creatività che “hanno costruito un ponte solidissimo fra la cultura barocca e la modernità, e hanno saputo riformulare una viva tradizione napoletana distante da ogni banalizzazione folkloristica”. Eppure, a cotanta profusione di parole per il prestigioso autore della Casa corrisponde malamente il suo catalogo editoriale, sicché Il presepe popolare napoletano del 2004, mai più ristampato, si vende da tempo a prezzi antiquariali (e non è il solo testo quasi irreperibile dell’“uomo di teatro impareggiabile”, che l’anno scorso ha pubblicato l’ultimo libro, su Giovanna d’Arco, con l’editore napoletano Colonnese).

“De Simone con La gatta, come Armando Pugliese con il Masaniello, ottenne un successo precoce che ne condizionò gli sviluppi successivi” osserva De Fusco. “Quello fu un momento felice della vita culturale napoletana, in cui i testi attecchivano in un contesto particolarmente favorevole. Nessuna delle opere che seguirono conseguì la stessa fortuna, però non credo che De Simone abbia mai avuto difficoltà a essere rappresentato a teatro”. Per riconciliarsi con La gatta, e onorare il suo autore, De Fusco lancia un’idea che all’estero non risulterebbe singolare o impossibile: “Sarebbe bello se un teatro napoletano ospitasse stabilmente quest’opera. Sono convinto che anche se fosse replicata tutti i giorni non mancherebbe mai il pubblico, perché è stata uno dei massimi spettacoli italiani del dopoguerra e meriterebbe di ritornare in vita così”.

L’ostacolo maggiore è forse rappresentato dalla “incapacità dell’intellighenzia napoletana di riconoscere la coesistenza di più voci invece di cadere nell’errore di tifare per questo o quel filone egemone”, dice Francesco Cotticelli, docente di Discipline dello spettacolo all’Università Federico II. “Bisognerebbe ragionare con la testa più che con la pancia per supportare, e magari sopportare, la ricca polifonia che è caratteristica delle espressioni artistiche napoletane. Si sbaglia quando non si riconosce a ciascuna voce il diritto di esistere. Prendiamo il caso di Geolier: se quel rapper non ti piace non lo ascoltare, però accetta che piaccia a qualcun altro. Oppure, per tornare al teatro, prendi il caso di Vincenzo Salemme: rispetto alla sua messinscena di Natale in casa Cupiello ce ne sono state forse di più interessanti, ma a nessuna si può negare cittadinanza. Eduardo stesso, a dispetto di chi si erge a vestale contraria a ogni rilettura delle sue commedie, non le rappresentava sempre nello stesso modo”. E Cotticelli ricorda che di De Filippo “è sopravvissuto un canone ristretto della sua produzione perché gran parte del repertorio non viene più riproposto, come è accaduto per altri grandi del teatro: basti vedere quante delle commedie scritte da Carlo Goldoni vengono ancora rappresentate”.

Cotticelli concorda con De Fusco sulla vitalità della tradizione attoriale napoletana, che si tramanda quasi per flusso naturale senza l’esistenza di una vera e propria scuola: “Non c’è stato l’impoverimento paventato da De Simone, anche se lui ha avuto il merito di recuperare figure con cui rischiava di estinguersi un certo modo di fare teatro, come Rino Marcelli, che veniva da una famiglia d’arte tradizionale. Se però guardiamo alle stesse fiction tv ritroviamo la filigrana dell’attorialità partenopea, e la cogliamo anche nel cabaret: Vincenzo Comunale, per esempio, mi ricorda addirittura il primo Massimo Troisi. Il teatro napoletano gode insomma di più che discreta salute”.

 

“Sabato, domenica e lunedì” di Eduardo in scena a Mosca nel 2018: un successo strepitoso. “E' come Pirandello”, dice Luca De Fusco

                        

 

E’ la “intellighenzia” evocata da Cotticelli che dovrà fare i conti con De Simone fatto fantasma, e chissà come cucirà alla sua Gatta Cenerentola il vestito “pe’ farla trasì da riggina a palazzo reale”; per preservarla nella memoria che è mamma o matrigna; per non tenerla incatenata al focolare della dimenticanza di chi vide una volta quel capolavoro e lo vorrebbe rivedere; di chi ne ascolta tuttora le musiche; di chi s’è accodato al funerale del maestro senza il biglietto da intellettuale. “Riempivano il Duomo tante persone del popolo perché lui aveva affondato le mani in quelle profondissime radici per attingerne una energia trasfusa ai livelli più alti”, racconta Marisa Laurito, direttrice artistica dello storico Teatro Trianon di Forcella, che sta celebrando con una mostra iconografica prorogata fino al 18 maggio un altro grande del palcoscenico partenopeo: Nino Taranto, al quale a dicembre scorso è stata intitolata anche una strada. “Ricordo come se fosse ieri quando, giovanissima, vidi La gatta Cenerentola al Teatro San Ferdinando. Uscendo mi sembrava di volare per la meraviglia cui avevo assistito. Chissà, favoleggiavo, se un giorno potrò fare qualcosa di simile” rievoca Laurito, che lavorò con De Simone e con Eduardo ma non li paragona: “Sono stati tanto grandi quanto differenti, ma l’uno non esclude l’altro e ciascuno ha lasciato un patrimonio di bellezza. Erano diversi pure nell’approccio: con Eduardo era come entrare in chiesa, pretendeva disciplina e un’attenzione enorme, mentre Roberto era più sciolto, ci si discuteva in modo rilassato, ma da ognuno imparavi e tutti e due furono generosi con i giovani. Questa è la comune indicazione che ho seguito: nella programmazione del Trianon non trascuriamo la tradizione ma abbiamo pure dato spazio a poco conosciuti attori e cantautori, qualche volta rischiando e altre vincendo”.

E’ curioso che sia De Filippo sia De Simone siano consegnati alla vulgata per i presunti cattivi caratteri, quando furono entrambi mentori di numerosi talenti poi affermatisi nei territori artistici più disparati, anche se talvolta gli allievi avvalorarono il proverbio “T’aggi’ ’a ’mparà e t’aggi’ ’a perdere” (il verbo “imparare”, con filosofica ambiguità, indica in napoletano sia l’insegnare che l’apprendere). E’ interessante il ricordo del rigore eduardiano tramandato dalla giovanissima attrice Giuliana Gargiulo, che poi passò al giornalismo, in un diario del 1957 in cui descriveva lo svolgimento delle prove: “La regia di Eduardo è scattante e calmissima. Il suo metodo finora è unico. Recita contemporaneamente all’attore, mettendosi accanto a lui, alla sua destra o alla sua sinistra, come un’ombra, facendo i gesti che desidera vengano fatti, suggerendo i toni di voce, i movimenti che gli sembrano migliori. L’attore non deve fare altro che diventare l’ombra di Eduardo, seguendolo nelle parole, imitandolo nelle intonazioni e nei movimenti”.

Eppure, non sempre andava così. Angelica Ippolito ci ha riferito un gustoso episodio che la riguardò durante una tournée di Napoli milionaria! in cui interpretava la figlia del protagonista Gennaro Jovine: “Dovevo recitare la battuta: ‘Stasera vado al cinematografo’ e uscire di scena. A questo punto sapevamo che era atteso l’applauso del pubblico. Purtroppo, sera dopo sera l’applauso non veniva e mi sentivo sempre più frustrata, finché dopo mesi di repliche pensai di aggiungere una piccola pausa e di girarmi dopo avere pronunciato quella frase. E finalmente scrosciò il sospirato applauso. Al termine mi lamentai con Eduardo: ‘Me lo potevi dire subito che andava fatta così’, ma lui ribatté: ‘Era importante che ci arrivassi da sola’. Dovevo capire da me, con l’esperienza, quanto conta un tempo comico che non è scritto sul copione. Eduardo ripeteva: ‘Se vuoi imparare a recitare stai dietro le quinte e guardami’”.

C’è un consolidato ricordo che diretti testimoni confermano e suona come un paradosso: fu proprio grazie a De Filippo che la Gatta desimoniana prese vita a teatro e a lui fu tributaria del primo successo. “Eduardo caldeggiò l’opera presso Romolo Valli affinché debuttasse al Festival di Spoleto e Valli si fidò della sua parola”, racconta Isa Danieli, che lavorò con entrambi gli artisti napoletani e stupì il pubblico con una memorabile interpretazione nel “secondo coro delle lavandaie” della Gatta Cenerentola. La simpatia del “direttore”, come ancora lo chiama Danieli, per il giovane De Simone si era già manifestata ai tempi della Nuova Compagnia di Canto Popolare: “Io e Angelica Ippolito, dopo avere assistito all’esibizione di questo gruppo di ragazzi in un minuscolo locale, convincemmo Eduardo ad ascoltarli. Ne rimase così colpito che offrì loro ospitalità al Teatro San Ferdinando due volte alla settimana. Senza mai chiedere una lira. La stessa prova generale della Gatta Cenerentola per Spoleto si tenne, aperta al pubblico, al San Ferdinando. Mi dispiace che queste cose non vengano ricordate, ma è giusto che si sappiano e si ricordi pure che Roberto realizzò i commenti musicali per l’edizione televisiva delle commedie di Eduardo”. Nel flusso di memoria dell’attrice c’è anche quella di Eduardo che la richiamò per lavorare e lei gli disse di essere già impegnata con lo spettacolo di De Simone: “Così, quando lo portammo al Teatro Valle, venne a vederci e ci applaudì. Alla fine entrò nel mio camerino, prese una sedia e disse: ‘Mò assettammoce e appiccicammoce ’n grazia ’e dio’ (‘Ora mettiamoci seduti e litighiamo tranquillamente’)”.

Nessuna contrapposizione, secondo Isa Danieli, tra i due autori e tra visioni del teatro così diverse, senza contare che tra l’uno e l’altro fu l’attrice prediletta di Annibale Ruccello: scrisse Ferdinando a sua misura. “Annibale era un ragazzone dai capelli lunghi, che sulla scia di De Simone aveva battuto le campagne per raccogliere le tracce sonore tradizionali sulla Fiat 128 del padre. Un giorno mi portò a casa un testo che s’intitolava Weekend chiedendomi di interpretarlo, ma non mi convinceva e lo invitai a scrivere qualche altra cosa. Si ripresentò dopo appena una ventina di giorni con Ferdinando. Lo lessi e rimasi folgorata. Giurai a me stessa che l’avremmo messo in scena a tutti i costi. Ce lo produsse Mauro Carbonoli, un milanese illuminato, perché la cooperativa di Ruccello non aveva risorse. Quando arrivammo a rappresentarlo a Roma, al Quirino, gettammo una monetina nel wc del teatro per propiziare il ritorno, come fanno i turisti alla Fontana di Trevi”. Oggi l’opera è reputata un classico della drammaturgia contemporanea e proprio ad aprile scorso Arturo Cirillo l’ha riportato in scena nella Capitale al Teatro India (purtroppo Ruccello, morto a trent’anni in un incidente d’auto nel 1986, non poté godere della definitiva consacrazione). 

 

De Simone aveva affondato le mani in “profondissime radici per attingere una energia trafusa ai livelli più alti”, racconta Marisa Laurito

                    

 

Quale che sia l’idea di teatro, e la rispettiva cifra umana, Isa Danieli ha amato Eduardo e Roberto in uguale misura: è stata lei, con il marito Gigi Esposito, tra le ultime persone a vedere De Simone due giorni prima che morisse. “Era malandato per i postumi della polmonite che aveva sofferto a gennaio, ma lucidissimo e di buon umore. Con noi ha parlato per due ore e ricordava perfettamente la collocazione di un libro che voleva farmi leggere, un testo teatrale di Dino Buzzati, Sola in casa, che mi suggeriva di portare in scena. Perciò la notizia della morte mi ha lasciata di stucco. Gli devo tantissimo, soprattutto perché con la sua insistenza riuscì a farmi cantare in scena per la prima volta, in quel pezzo difficilissimo della lavandaia che girava su se stessa come una tarantata e al termine perdeva i sensi. E posso dire che accadeva davvero”. Diverso da Eduardo il maestro lo era anche nella scrittura, più simile all’estro di un Federico Fellini: “Per Eduardo il copione era sacro, invece Roberto spesso cambiava di notte quel che dovevamo provare e si presentava al mattino con le parti scritte sui bigliettini”.

Fu al Trianon diretto da Laurito che De Simone rappresentò l’ultimo lavoro, una rivisitazione della Cantata dei pastori natalizia ma con la sovrapposizione di “pupi, sceneggiata e Belcanto”, e a quel teatro cui era più legato intitolò lo spettacolo. Per una beffa della sorte, tuttavia, la rappresentazione di Trianon Opera andò in scena a sala vuota a causa delle norme sulla pandemia. A serbarne il ricordo c’è solo la registrazione televisiva di quando fu trasmessa su Rai5 il 30 aprile 2021. E c’è la memoria della conferenza stampa in cui il maestro si scagliò ancora una volta contro un teatro “dove i sogni, l’immaginativa, le visioni sono spaccate in pezzi, frantumate nel realismo”. Fece dire in scena che quell’opera recitata senza pubblico era come “na partita a tressette cu lu muorto”. Ora che se n’è andato lui dall’altra parte, è Napoli che la deve giocare con lui.