L'editoriale dell'elefantino
Sophia Loren e Brigitte Bardot: simboli, più che icone
L'una imperiale e trionfante, l'altra ribelle e anticonvenzionale: corpi, volti e sguardi che hanno proiettato gli anni '50 e '60 dominandoli con la loro inconfondibile bellezza, e che oggi incrociano ancora una volta i loro percorsi in un compleanno unico. Dovendo scegliere, è preferibile evitare
Il 20 settembre di novanta anni fa (1934) era nata Loren, Sophia Loren. Il 28 era nata Bardot, Brigitte Bardot. Questi due gran pezzi di figliole, mirabili esemplari di donna, per il nonnetto maschile di oggi sono l’una madre e moglie, l’altra amante. Corpi, volti, luci intramontabili della ribalta che hanno lasciato a sé stessa la modernità e imbracciato come un’arma altrettanto letale della bellezza la loro vecchiaia, il passato di molti. Napoli e Parigi, passando per Hollywood. Profili borghesi e modalità popolari, avventure e amori, Cary Grant e Roger Vadim, matrimoni e legami finali, solitudine e ritiro. Poco distanti alla nascita, Loren ha proiettato gli anni Cinquanta fin dentro il presente del ricordo. Bardot i Sessanta. Dell’una si è parlato per processi per bigamia (Carlo Ponti) e inesistenti reati fiscali e la pacifica Ginevra calvinista, dell’altra per il topless e i playboy della Costa Azzurra e la tenuta con gli animali. Il Mediterraneo le accomuna, ma sono mari diversi, acque in cui si immergono tipi diversi di desiderio, di ammirazione, di contemplazione. Il grande Mughini ha raccontato per noi Bardot con munificenza, Loren attende ancora un cantore di quella fibra, ma prima o poi lo avrà. Bardot ha avuto Andy Warhol, per sé e per assimilazione a Marilyn Monroe, che doppiò l’inabissamento di Greta Garbo con un suicidio carnale, Loren avrebbe meritato un ritratto di Bacon, un olio più istituzionale e solido, come le si confaceva, come le si addice.
“E Dio creò la donna” non è solo un film di Vadim con Bardot del 1956, remake del 1988, è una dichiarazione di ideologia poetica creazionista contro il gender e le sue libertà contemporanee. “La ciociara” di De Sica e Zavattini, da Moravia, è un film da Oscar del 1960, la rivisitazione tragica della guerra mondiale, europea, italiana e il modello stesso della donna come eroina e vittima del male più truce. Le date in cui furono girati andrebbero invertite, perché la memoria del dolore campeggia nei Cinquanta e la forza tremenda del desiderio riguarda il decennio successivo, ma forse i destini si intrecciano.
Bardot ha un corpo commestibile, esposto al cannibalismo maschile senza cedergli di un’unghia. Loren è sempre trionfale, allude prolifica e sfacciata alla pietà universale, anche nella tristezza intimista di “Una giornata particolare”, altro capolavoro (di Scola). La testa di Bardot è ribelle, non convenzionale, in certa misura assurdista, con la passione animalista esclusiva, l’identitarismo della droite da De Gaulle ai suoi vecchi nemici lepenisti, e la sua voluta, accanita coiffure da vecchissima ragazza del secolo scorso, e niente più, la consegna alla modestia che è complemento necessario della grande bellezza provocatrice e insolente della gioventù. Loren è per mentalità italiana, non si rassegna mai, si trucca spesso come per l’Aida e rifulge comunque e dovunque per il taglio degli occhi, l’imponenza delle proporzioni, del seno, i movimenti imperiali, l’invincibilità.
Dovendo scegliere, si dovrebbe sempre avere l’accortezza di scegliere di non scegliere. Quelle due supreme immagini di donna non sono icone, come si dice oggi con estrema facilità lessicale, sono simboli, fascio di significati o, come dice il dizionario, “nel senso originario, greco antico, simboli come mezzo di riconoscimento e di controllo che si otteneva spezzando irregolarmente due parti di un oggetto”, la donna oggetto, “in modo che il possessore di una delle due parti potesse farsi riconoscere facendole combaciare”.
Antifascismo per definizione