Estate metafisica
Giù il sipario sull'essere
Ripensare il concetto fondamentale della metafisica per tutelare la libertà dell’individuo, minacciata da poteri che si considerano irresistibili. E che però vengono meno di fronte alla trascendenza dell’altro
Fin dall’età classica la civiltà occidentale è stata attratta dal cerchio magico dell’ontologia e dall’idea che l’essere e/o gli enti siano eterni. La sacralità di ciò che si colloca nello spazio e persiste nel tempo incarna una prospettiva che, come un fiume carsico, emerge a più riprese nella filosofia occidentale, dandoci una rappresentazione della dimensione spazio-temporale come di un qualcosa che si fonda da sé. Una delle conseguenze è che perfino lo sforzo di pensare il divino, ciò che valica l’umanità, ha finito per essere inglobato entro queste categorie: come se Dio fosse un ente tra gli enti, anche se di qualità più nobile. Tutto ciò era chiaro a Martin Heidegger, persuaso che la teologia sarebbe parte essenziale della volontà d’ignorare la questione ontologica e, di conseguenza, la differenza tra essere ed ente.
I ripetuti “ritorni a Parmenide” sono nel segno d’imporre una sorta di autosufficienza ontologica, che in alcune circostanze ha pure comportato l’idea che tutto quanto è non soltanto esiste, ma deve essere necessario e razionale. Di conseguenza, una sempre diversa riformulazione del fato domina prospettive anche molto divergenti, persuadendoci pure che il male non è davvero tale e la morte non ci riguarda. Una tesi classicamente filosofica è che, se la realtà viene osservata a partire da premesse corrette, allora l’errore, il tragico, la sofferenza e la colpa perdono ogni consistenza.
Un’autorevole ripresa di tutto questo si trova in Emanuele Severino, certo il più deciso assertore della tesi che la peggiore follia consisterebbe nel credere che ogni cosa provenga dal nulla e poi vi faccia ritorno. L’impossibilità logico-morale di guardare alla realtà come a un fiume di avvenimenti che emergono dal buio per rientrarvi conduce i difensori dell’essere come persistenza e necessità a negare non soltanto la morte e il divenire, ma pure la libertà individuale.
Tale universo che si autocelebra, a ben guardare, è soltanto l’altra faccia del nichilismo, che letteralmente mortifica ogni ente e ogni istante. D’altra parte, un ontologismo fiero di sé come può davvero fare i conti con lo scorrere di qualsivoglia fiume e con il deperire di ogni esistenza, bellezza e nobiltà?
Tutto ciò comporta tutta una serie di implicazioni anche in tema di diritto. Tanto più che grazie a Carl Schmitt oggi è chiaro a molti come le istituzioni politiche della modernità rappresentino la secolarizzazione di concetti teologici. Nell’epoca che progressivamente ha lasciato alle spalle la Cristianità medievale, e con essa la centralità del Dio di matrice biblica, s’è dunque assistito a una mimesi: il potere di Stato s’è fatto sovrano e perpetuo, onnipotente e irresistibile, trovando i propri profeti ed esegeti in Jean Bodin, Thomas Hobbes, Jean-Jacques Rousseau e altri ancora.
Quando il dominio di alcuni uomini sui propri simili si è reinventato in termini inediti, facendosi potenzialmente illimitato e rifiutando vincoli giuridici, morali e religiosi (anche di carattere tradizionale), il diritto naturale ha provato a operare a tutela della società. Nel momento in cui nell’età dell’assolutismo si è forgiato uno Stato impostosi quale entità sovrastante ogni persona e ogni principio (superiorem non recognoscens), lo sforzo di proteggere le ragioni della società ha preso anche la strada di una riformulazione del giusnaturalismo.
È subito apparso chiaro che tra diritto naturale e Stato sovrano non ci potesse essere compatibilità, poiché – come Hobbes ben sapeva – il potere ha bisogno di disporre del diritto e ridurlo ai propri comandi. Per realizzare un simile obiettivo, è indispensabile che il trionfo delle istituzioni civili si accompagni all’avvento di una nuova divinità secolare, dotata del monopolio della forza e che prometta di scongiurare ogni insicurezza e fragilità. Un diritto integralmente positivizzato avrebbe favorito questa pretesa di alcuni uomini di governare i propri simili.
Ben pochi hanno provato a contrastare questa metafisica dell’immanenza, che era già potenzialmente totalitaria nelle sue premesse cinque-secentesche. Dato che il potere istituito ha finito per poggiare sulle opinioni prevalenti, l’identificazione tra diritto e norma s’è poi avvantaggiata dell’emergere di pratiche che rigettavano ogni criterio di giustizia e riconducevano l’ordinamento alla mera positività. Entro questo quadro, l’ideale di un diritto indipendente dall’arbitrio umano e che ricerca la giustizia quale propria raison d’être ha incarnato lo spirito di resistenza della società dinanzi agli arbitri di Stato.
Dall’antico tronco del diritto naturale (dell’idea che vi sia un diritto eticamente fondato che è criterio di giudizio e valutazione di ogni ordinamento positivo) è poi germinata quella tesi secondo cui ogni uomo è detentore di diritti soggettivi prepolitici, che nessuno dovrebbe mai violare. Le libertà dei moderni di cui parlava Benjamin Constant sono tutt’uno con questa tradizione libertaria, manifestatasi nelle rivoluzioni inglesi del XVII secolo e nella Guerra d’indipendenza americana nel secolo seguente.
Quando si considerano più da vicino quelle che sono le fondamenta metafisiche su cui poggia il diritto naturale stesso (e quindi anche la tradizione dei diritti naturali), c’è però da chiedersi se non sia necessaria una riformulazione di quelle premesse e di conseguenza del giusnaturalismo medesimo, per com’è stato spesso pensato. In particolare, interrogarsi sui confini dell’essere può risultare indispensabile per definire altrimenti lo statuto dell’umano e, più in generale, la relazione tra antropologia e metafisica, tra diritto e verità.
Al riguardo, è difficile ignorare come larga parte del diritto naturale, spesso senza avvertirlo, dipenda proprio da quelle premesse ontologiche. C’è allora l’esigenza di dirigersi verso un diritto naturale che non soltanto si opponga al dominio della mera opinione e della pura forza, ma che pure sappia scoprire le tracce di ciò che un’antica riflessione filosofico-religiosa ha individuato nel termine-concetto di trascendenza.
Qui Emmanuel Lévinas ha colto un elemento cruciale, intuendo fin dagli anni Trenta come l’hitlerismo non fosse qualcosa di accidentale, ma come al contrario ci parlasse della disfatta dell’etica e della fede al tempo dell’ontologia. Ciò che trascende l’essere risulta quindi strettamente connesso a chi è altro da me. Una teoria dei diritti individuali inviolabili che rinvii non già all’ontologia, ma alla trascendenza, delinea un quadro concettuale nel cui focus c’è l’esperienza dell’alterità: quell’altro da me che incontro nelle relazioni interpersonali (sguardi, contatti, commerci, dialoghi), ma anche quell’assolutamente altro di cui l’alterità etica è epifania.
Nella riflessione giuridica s’è spesso rilevato che un uomo in solitudine non può avere esperienze di carattere giuridico.
Nell’isola in cui è naufragato, Robinson non può essere proprietario di nulla; è solo quando Friday appare in scena che gli istituti del diritto impongono la loro presenza. Quando però riconosciamo il carattere inviolabile dei diritti altrui, quali vincoli alla mia possibilità di disporre arbitrariamente del prossimo e dei suoi beni, andiamo assai oltre la mera constatazione che si danno questioni giuridiche solo entro relazioni sociali. In termini ben più radicali, se scegliamo di porre al centro i diritti dell’altro ne deriva che demitizziamo pure quella vicenda filosofica che – nel suo oscillare tra ontologia e nichilismo – ha molte responsabilità entro il processo che ha condotto al trionfo incontrastato del potere: di quello Stato che il più influente teorico della sovranità democratica, Jean-Jacques Rousseau, non a caso volle infallibile e irresistibile.
Di conseguenza, la sfida di una filosofia della libertà e dei diritti inviolabili deve muovere da una comprensione dei rapporti interpersonali che muova dal carattere non autofondato dell’essere. La critica a ogni relativismo in ambito giuridico deve accompagnarsi a una contestazione dell’immanentismo, quale riproposizione di una divinizzazione di ciò che è. Nominare la trascendenza è provare a proiettarsi oltre ciò che è, ma al tempo stesso è accettare di riconoscere l’infinita distanza tra l’io e l’altro, nella consapevolezza che il trascenderci di alter allude a qualcosa che certo non siamo in grado di pensare e conoscere, ma a cui al tempo stesso costantemente siamo chiamati a rivolgere i nostri pensieri.
Naturalmente tutto ciò genera enormi difficoltà: anche sul piano linguistico. Come bene evidenziò Jacques Derrida fin dagli anni Sessanta, ogni sforzo di cogliere l’alterità e quindi di evadere dall’ora-e-qui della nostra condizione spazio-temporale non può che realizzarsi nel linguaggio della filosofia e intorno a nozioni che ci parlano dell’essere. Eppure la realtà di ciò che c’incatena a quell’essere da cui vorremmo evadere può – entro certi limiti – essere contestata tanto nel linguaggio quanto nell’esperienza. Derrida coglie le difficoltà, ma anche il senso profondo di quella sfida: “Non intendiamo denunciare una incoerenza di linguaggio o una contraddizione di sistema. Vogliamo interrogarci sul senso di una necessità: quella di collocarsi nella concettualità tradizionale, per distruggerla”.
Lo stesso Luigi Pareyson, quando a suo modo collega l’essere alla libertà (e non alla necessità), è indotto ad accantonare ogni categoria metafisica classica (causa, sostanza, principio, fondamento) per usare un linguaggio allusivo e alla fine di matrice mistica. La libertà al cuore dell’essere gli appare un abisso, ossia qualcosa che si trova oltre l’essere e al di là delle categorie spazio-temporali: una realtà che trascende l’ovunque e l’eterno, perché si sottrae a ogni costruzione ontologica e quindi a ben guardare antropomorfica. “La libertà è un abisso, è una profondità senza fine”. Sempre Pareyson prova a leggere in Friedrich Schelling una critica radicale all’ontologia heideggeriana; e anche se resta all’interno delle categorie dell’essere, si sforza di pensare l’essenza dell’essere quale libertà.
Se da un lato la trascendenza ci guida lungo un cammino che permette di avvertire il senso della libertà quale assenza di fondamento, d’altro lato essa connette Dio al più piccolo dei nostri fratelli, ciò che è altrimenti rispetto all’essere e ciò che vi è di strutturalmente indefinibile nella verticalità della relazione del Tu con l’Io. Chi prova a immaginare una dimensione che supera la realtà vorrebbe così farsi portavoce, tramite un soffio specificamente biblico, della possibilità di un rapporto non violento con l’infinitamente Altro, che si realizza nella dimensione del faccia-a-faccia quale responsabilità etica illimitata (è questa la lezione su cui insiste di continuo Lévinas) e quale desiderio insaziabile di ciò che valica ogni esperienza effettiva.
In tal modo, l’Io e l’Essere lasciano il centro della scena. L’avventura della vita non può poggiare sul cogito ergo sum e neppure sul sum ergo cogito, secondo la replica realista all’idealismo cartesiano. Quando ci sforziamo di nominare la trascendenza, il punto di partenza è l’esperienza di mortali – quali noi siamo – che entro certi limiti sono in grado di evocare ciò che oltrepassa la dimensione consueta: che superano quell’orizzonte che vorrebbe tutti noi e Dio stesso quali enti in mezzo ad altri enti. Nel nostro faticoso e sempre inadeguato cercare ciò che è infinito rinveniamo un’apertura che non solo offre speranza, ma che soprattutto riformula le relazioni tra gli umani.
Lévinas non fu, in senso proprio, un pensatore politico, né ancor meno un filosofo del diritto. Ma nel suo pensiero le tragedie di un tempo feroce e di una storia criminale sono rilette a partire dalle categorie di una filosofia che si è voluta autosufficiente. Come ha rilevato Jozef Tischner, “ciò che Lévinas chiama l’il y a è il destino reale degli abitanti di Kolyma”. Il potere quale male è al cuore stesso della critica che Lévinas rivolge all’ontologia, anche indipendentemente dal fatto che quella riflessione non appaia, prima facie, consacrata alla politica e alle sue logiche. Sempre Tischner sottolinea che “con Lévinas, il cui pensiero si è nutrito della prova della Shoah, abbiamo a che fare con un’opera che più di ogni altra è nata dal confronto con tale contesto”.
Perché l’altro sia inviolabile e quindi ogni anello del potere sia rifiutato – per ricordare l’epopea di J. R. R. Tolkien – è necessario tentare l’impossibile, non smettendo di dirigersi verso dimensioni etiche e metafisiche che siano consapevoli, con Paolo di Tarso, che la vera sapienza “non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo, che vengono ridotti al nulla” (1Cor 2, 6).
Carlo Lottieri insegna Filosofia del diritto all’Università di Verone e dirige il dipartimento di Teoria politica dell’Istituto Bruno Leoni. Si conclude con il suo articolo la serie del Foglio sulla metafisica, un percorso a tappe per affrontare i grandi temi della natura, della storia, della libertà e dell’arte dal punto di vista filosofico. Sono già usciti il 2 luglio “Un ponte tra l’uomo e il cosmo” di Michele Silenzi, il 9 luglio “Un magnetico avvenire” di Aldo Schiavone, il 16 luglio “Via la polvere dalla filosofia” di Rocco Ronchi, il 23 luglio “La forza selvaggia dell’essere” di Simone Regazzoni, il 30 luglio “E’ arte. Zeitgeist no, grazie” di Michele Dantini, il 6 agosto “Ritorno alla realtà” di Riccardo Manzotti.
Intervista a Gabriele Lavia