facce dispari

Ermanno Cavazzoni: “Nelle biblioteche c'è il mio vero aldilà”

Francesco Palmieri

Scrittore, docente universitario, animatore culturale, ha scritto un "Manualetto per la prossima vita": "Per un artista la sopravvivenza più veritiera è nelle opere che ha fatto". Intervista

È l’aldilà, per Ermanno Cavazzoni, “una bellissima leggenda” che accomuna i popoli e sussiste “anche se magari non ci si crede più molto”. Scrittore, docente universitario, animatore culturale, ispirò con ‘Il poema dei lunatici’ l’ultima opera di Federico Fellini, ‘La voce della luna’, di cui fu cosceneggiatore. Tratta dell’aldilà il suo volume più recente, ‘Manualetto per la prossima vita’, uscito per Quodlibet a febbraio. Un tema che già lo aveva affascinato quando curò la pubblicazione di ‘Il viaggio di G. Mastorna’ nel 2008, sceneggiatura del famoso film non fatto del regista riminese con prefazione di Vincenzo Mollica.

Come nasce il ‘Manualetto’?

Sono pezzetti che avevo scritto negli ultimi anni sul tema della morte, una parola che non è benvoluta dall’editoria e non dovrebbe comparire mai in un titolo. Vi ho raccolto anche le mie osservazioni su miti e questioni che mi paiono inevitabili, come la presunta esistenza degli extraterrestri, i quali anche se non ci crediamo sono entrati nella nostra cultura, un po’ come le storie di vampiri.

Lei avanza il dubbio che gli extraterrestri, se esistono, siano “dei truffatori peggio di noi”. E ironizza pure sui paradisi descritti dalle varie religioni.

Non è ironia, per carità. L’ironia ha sempre un tratto di aggressività verso il suo oggetto. Io scherzo, che è cosa diversa e non va confusa come fece Benedetto Croce, che attribuì ironia all’’Orlando furioso’. Quella di Ariosto è scherzosità. Non a caso è un capolavoro che ho letto di continuo e rileggo a pezzi e bocconi nella piccolissima edizione Hoepli.

Una differenza esemplare tra ironia e scherzosità?

I film di Sergio Leone: gli spaghetti western non ironizzano sull’epica americana ma ci scherzano su, portando tutto al paradosso e all’inverosimile. È il pistolero vestito col poncho che potevi trovare a Porta Portese.

Lei scherza con i fanti e non lascia stare i santi.

Se il nostro paradiso fosse come lo descrive Dante, tutta l’eternità a cantare, uno non se lo augurerebbe. O quello islamico: mi fa un po’ ridere pensare a quanto testosterone ci vorrebbe per soddisfare settantadue vergini. Poi c’è l’alternativa orientale della reincarnazione, già trattata da Platone, secondo cui ciascuno si sceglie la propria vita. Prima di cominciarla s’immerge nel fiume Lete e se ne scorda ma è già tutta prescritta, a differenza di quella cristiana che sembra la preparazione all’esame di maturità.

Quale forma di sopravvivenza auspica lei, se crede ce ne sia qualcuna?

Per un artista quella più veritiera è nei libri che ha scritto, nei film che lascia, se è un architetto negli edifici che ha concepito. Rappresentano il distillato del suo pensiero e l’autore rivive quando dopo un anno o dopo centinaia qualcuno riapre un suo libro, guarda la sua architettura, rivede un suo film o ne riascolta la musica.

Una biblioteca è un aldilà?

Ogni volta che ne visito una ho l’idea che contenga tutte le anime degli autori che raccoglie. L’arte è una promessa sotterranea, conscia o semiconscia, che il nostro pensiero sopravviva. Un libro è come l’elettroencefalogramma dello scrittore.

Quanto dista dalla visione foscoliana, che “a egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti…”?

Foscolo si riferisce liricamente al valore della cosiddetta gloria, ma a me quella non interessa. La sopravvivenza cui ho accennato non è in una lapide né nel diventare il nome di una strada, di una rotonda, o di un vicolo per i meno fortunati.

E tramite i racconti orali chi rivive?

Quelli anonimi, come le fiabe che passano attraverso le generazioni, sono piuttosto instabili perché cambiano a seconda di chi e di quando li racconta. Se c’è un autore che ha raccolto e perfezionato quelle storie, come nel caso dei Grimm o di Calvino, allora sopravvive con loro.

La trasmissione orale è finita?

Mi sembra più o meno perduta. Forse resistono le barzellette. Sono cambiati anche i destinatari delle storie, perché siamo invasi dalla tv e c’è un ascolto diverso, passivo.

Cosa raccontare ai bambini?

Ho la sola esperienza di mia figlia. Quando era piccola le riassumevo le tragedie di Shakespeare o le sunteggiavo brevemente i grandi libri, mentre ho sempre evitato quelle cose bambinesche con la maialina e altre idiozie. Io stesso ricordo di avere scoperto il mondo letterario su un’enciclopedia Mondadori di mio padre che riportava le sintesi di opere famose. C’era anche una bellissima collana Utet, La Scala d’oro, che riassumeva i grandi classici, ossia quei libri che quando li rileggi da adulto ci scopri ogni volta qualcosa di nuovo e anche se non ne ricorderai tutta la trama ti restano impressi per certe pagine, per alcuni personaggi. Persino se sono libri brutti.

Un classico brutto qual è?

‘Frankenstein’ di Mary Shelley è un romanzo noioso, però ha creato un mito che tutti riconoscono. L’uomo artificiale, o il robot della fantascienza, fa parte dei nostri interessi.

Nella sua narrativa ha attribuito un senso pure alle chiacchiere da bar.

Il bar è un luogo dove s’instaura la comunicazione anche attraverso discussioni di poca importanza. Persino nella banalità dei saluti o rimanendo zitti si costituisce una comunità. I cani quando s’incontrano s’annusano, le formiche si toccano, gli esseri umani usano le parole. Ho idea che invece con gli scambi virtuali si crei una società di individui isolati, che interagiscono senza sapere l’altro chi sia. Corrispondere su una piattaforma sociale con un nome che appare sopra lo schermo non vuol dire niente.

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