La recensione
I volti dell'avversario di Roberto Esposito
In libreria per Einaudi il nuovo saggio del filosofo Roberto Esposito che sviscera ogni possibile implicazione "che il tema della lotta con un avversario misterioso assume"
«“Allora, adesso, a noi due”, disse Bernand all’angelo. E lottarono tutta la notte, sino alle prime ora del giorno. L’angelo allora scomparve senza che nessuno dei due rimanesse vincitore». Così André Gide, ne “I falsari”, tornava a narrare l’episodio biblico di Giacobbe che lotta sulle rive dello Iabbòq con un avversario – forse un angelo, forse un uomo, forse Dio, forse sé stesso – tanto ossedente quanto enigmatico, e col quale si inocula a vicenda le proprie “piccole pazzie”. O almeno così vorrebbe una lettura della vicenda in chiave psicanalitica, tesa a farne l’emblema o dello sdoppiamento o del dilemma irrisolvibile della chiusura dell’uomo negli ipocondri della propria coscienza. Ma si tratterebbe solo dell’ultimo approdo d’una tradizione interpretativa che suole soffermarsi sulla Bibbia, considerandola «il grande codice» (come si è soliti dire adottando lo stereotipo coniato da William Blake, ma reso famoso con la titolatura del noto saggio di Northrop Frye), da puntellare con chiose, postille, splanamenti e annotazioni: un palinsesto di archeologica erudizione che – lamentava in pieno Novecento il celebre biblista Luis Alonso Schökel – ha reso lo studio biblico non la scienza della Bibbia, ma dei suoi studiosi. Quasi che i “Libri” fossero incapaci di dirsi da soli e necessitassero perciò d’una esegesi che li ripetesse.
A crearsi, tuttavia, come mostra Roberto Esposito ne “I volti dell’avversario” (Einaudi), specillando l’episodio della contesa di Giacobbe con la “creatura” narrato in Genesi 32,23-33, non è una «duplicazione cronica», un’allucinante girandola binaria in inesauribile rotazione, bensì un’identità enantiomorfa, grazie alla quale, fra opera e commento, si attua una simmetria non simmetrica. La medesima che parrebbe sussistere nella «congiunzione dei disgiunti» che il Patriarca e il suo antagonista realizzano, lottando (o abbracciandosi, secondo Majakovskij; o danzando, come suggerisce il grande dipinto di Delacroix a Saint-Sulpice) per un’intera notte, fino alla comparsa dell’aurora. Essi sembrano inscenare uno sdoppiamento dell’Uno – nota Esposito sulla scorta dell’evocazione dell’episodio biblico offerta da Baudelaire – ma quest’ultimo, a sua volta, non può che pensarsi in sé diviso. Un’ambiguità radicale pervade infatti Giacobbe fin dal nome, che lo vuole «ingannevole» e incline ai sotterfugi, sicché tanto più significativo appare che dall’incontro-scontro che lo ha per protagonista derivi una palingenesi anche onomastica: egli si chiamerà Israele, nome le cui prime lettere (yod, shin, resh) appartengono ad una radice che rimanda alla parola «iashar», «diritto». Come si sostiene nelle pagine de “La croce di Gesù” del mistico seicentesco Louis Chardon, Giacobbe, nell’incontro inatteso che lo coglie in una solitudine inquieta, pur prendendo a lottare in un accalorato scontro iniziato fra parti ineguali, sarebbe presto rassicurato dagli abbracci dell’avversario. Le sue strette lo incoraggerebbero e fortificherebbero. «La guerra [comincerebbe] a piacergli, per il solo fatto che i combattenti non hanno per fine la separazione reciproca, ma l’unione»: l’instaurazione di un sodalizio retto da un’etica comune, e fondato sull’abolizione di ogni soverchia differenza individuale nella comunanza della vita.
Un’ulteriore ambiguità travaglia, però, l’interprete. Non è chiaro – e la tradizione testuale non soccorre – se colui col quale Giacobbe si confronta sia un angelo della luce o Samael, il nome ebraico di Satana. Ma è pur vero che, stando ad una delle produzioni midrashiche più suggestive, il “Berešit Rabbâ” – annotava il grande studioso della mistica ebraica Gershom Scholem –, colui nel quale Giacobbe si imbatte è da annoverare fra gli «angeli nuovi», continuamente creati per cantare il proprio inno a Dio. «Essi esistono solo per un momento» – si puntualizza nello “Zohar” – «sono divorati da quel “fuoco che divora fuoco” e poi creati di nuovo».
Di questa filatessa angelica potrebbe invero, se lo si volesse, fornire una altrettanto infinita metameria di descrizioni, note, addenda. Lo stesso Esposito, nella seconda parte del suo saggio (nell’accezione che al termine ha conferito la riflessione storico-letteraria e filosofica novecentesca, e dunque di genere che, della scienza, possiede la forma e il metodo, dell’arte, la materia), presenta una serie di glosse volte a delucidare la pericope del “Genesi” che racconta la lotta di Giacobbe, facendo ricorso allo strumentario concettuale di volta in volta offerto dalla filosofia, dalla teologia, dalla letteratura, dall’arte, dalla psicoanalisi. Si tratta d’una ampia disamina, che, pur essendo conscia ch’essa non può restituire la totalità del non totale, non manca di sviscerare ogni possibile implicazione che il tema della lotta con un avversario misterioso assume. Sembra in tal modo potersi rintracciare fra questo studio e le precedenti ricerche svolte da Esposito una continuità a tutta prima non del tutto perspicua, e che anzi esplicitamente si preferisce sia colta solo marginalmente, quasi che lo stesso paradigma del conflitto, al centro di molte delle analisi del filosofo napoletano, sia in quest’ultima opera da considerare alla stregua d’un semplice residuo, d’un sottile richiamo.
In effetti quello polemologico non è il tema dominante dell’argomentazione. Ne è piuttosto il pretesto, il testo «(sempre) ancora a venire». Ovvero lo è nella misura in cui l’analisi di Esposito elegge qui a proprio obiectum un conflitto sospeso da una tregua (se non da una vittoria), quale si confà ad una prova saggistica che non si cura d’una certezza scevra di dubbio, ma ne denuncia persino il modello, in nome del bisogno d’annullare ogni pretesa di completezza e di continuità, onde permettere al proprio pensiero di farsi teatro dell’esperienza, senza dipanarla. Solo lasciando alla scrittura il compito di ricondurla ad un ordine che ne esprima l’essenza – e possa così compiersi «l’ora santa di Giacobbe, la lotta con l’Ideale».