1953-2024

È morto Italo Rota, l'architetto della felicità

Fabiana Giacomotti

Suo il Museo del Novecento, il Padiglione Italia a Dubai, e infiniti altri progetti pubblici e privati, di design e anche di moda. Aveva settant’anni, aveva dovuto ricoverarsi di nuovo di recente. In calce, il suo ultimo editoriale scritto per il Foglio della Moda un mese fa

"Un uomo sofisticato con un pensiero inaspettato e originale", ha detto il presidente della Triennale Stefano Boeri di Italo Rota, scomparso poche ore fa a settant’anni dopo una lunga malattia che credeva di aver debellato e che invece è tornata a presentarsi esigendo il prezzo finale, annunciando che  il museo milanese ("la sua casa") ospiterà la camera ardente. E’ giusto così, ma è giusto anche dire che Rota, come tutti i grandi designer e architetti che hanno plasmato città e oggetti di uso comune, ha trovato casa nel cuore di tutti noi, accompagnandoci nelle visite nei musei, nelle nostre passeggiate anche frettolose, nei nostri gesti di tutti i giorni, nei nostri abiti.

 

Il Museo del Novecento di Milano, ma anche tavoli per la convivialità (“6 a tavola”) e poltrone. “Rota aveva un’idea ben precisa: la felicità nell’architettura” ha scritto in una nota di cordoglio la Biennale di Venezia, alla quale collaborava con il direttore Carlo Ratti attorno a idee innovative in relazione alla sostenibilità e all’economia circolare, entrambi argomenti che lo interessavano da quando non erano ancora diventati di uso, forse di ricerca ma in ogni caso di abusato linguaggio comune: quando, all’Expo di Dubai del 2020, che si svolse causa pandemia nel 2021, Italo Rota disegnò il Padiglione Italia, la facciata era composta di corde nautiche realizzate con plastica riciclata, il tetto di barche tricolori, mentre il sistema di purificazione dell’aria era basato sull’impiego dell’alga spirulina che le signore usano abitualmente per purificare il fegato dopo le notti di eccessi.

 

Il sindaco di Milano Giuseppe Sala ha ricordato il supporto che gli diede Rota per l’Expo di Milano del 2015, dove poi progettò il padiglione del Kuwait. Tutti noi che gli eravamo amici, ma anche chi non lo conosceva e si recava a Parigi per una mostra, non poteva fare a meno di apprezzare le mani sapienti che avevano concepito la ristrutturazione del Musée d’Orsay: da poco laureato Rota, l’aveva cofirmato con Gae Aulenti, e ancora con lei aveva seguito il Musée National d’Art Moderne del Centre Pompidou, le nuove sale della scuola francese alla Cour Carré del Louvre, l’illuminazione della cattedrale di Notre Dame. Quindi, con il suo studio milanese, fondato alla metà degli Anni Novanta, aveva progettato interventi negli spazi pubblici di Rouen, Brescia, Verona, e la promenade del Foro Italico di Palermo: realizzazioni in cui spiccava la scelta di materiali innovative, di tecnologie all’avanguardia, di una ricerca determinata della luce, che andava a cercare anche nei luoghi apparentemente più bui, meno scontati, con una curiosità infinita: poteva essere una strada di periferia, oppure I modi e il mood dei trapper, di cui scrisse un mese fa nell’articolo che pubblichiamo in calce.

 

Apprezzava molto il “Foglio”, la moda lo interessava come mezzo di espressione al tempo stesso personale e sociale. Questo editoriale, scritto per il numero di marzo 2024 dell'inserto mensile il “Foglio della Moda” osservando il mondo della finestra della clinica dove era ricoverato, l’Humanitas di Rozzano, affiancato dai suoi collaboratori e seguito ogni ora, ogni minuto, dall’amore di sua moglie, la scenografa Margherita Palli, ci appare oggi come una breve e intensa collazione di tutto quanto lo interessava, e che era moltissimo.

 

 

L'eclettismo nuovo, visto dalla mia finestra

di Italo Rota

 

In questo ultimo anno, per ragioni di lavoro ho frequentato tantissime persone: innovatori, scienziati, biologi, astrofici ed ingegneri della materia; una moltitudine di persone di tutte le età e di tutte le culture e paesi, dei quali una cosa certa è il loro mondo vestimentario,  molto diverso da quello che avrei potuto immaginare dieci o cinque anni fa. Molti di loro  vestono abiti funzionali, estremamente semplici, ricercati ma anche confortevoli. Alcuni li mescolano con pessimi vintage, che possiedono però tutti la caratteristica di essere prodotti con grande qualità manifatturiera, non solo nei colori, ma anche nella storia di cui sono testimoni. Poi troviamo tutto il mondo degli accessori. Per queste persone, lo zaino e le scarpe da ginnastica sono scelti con grande cura, fatti per durare nel tempo, sempre estremamente avanzati nella tecnica e nei materiali, quasi dovessero offrire soluzioni per il destino e la permanenza degli umani sulla terra.

L’aspetto vestimentario per se è come passato in secondo piano.

Forse, per pensare, necessitiamo di una t-shirt di una qualità di lana infinita e di sapere  quanto essa renda sulla pelle, quanto aiuti a immaginare, a ragionare in astratto.

Forse è così anche per la casa dove si abita, fatta in quel certo modo, per il proprio ufficio, l’insieme di elementi estremamente semplici, funzionali, con qualche dettaglio innovativo e probabilmente mescolati con mobili che seguono la stessa filosofia della composizione vestimentaria, con pezzi di modernariato di alta qualità manifatturiera.

Alcune delle persone che ho incontrato indossavano gli short di Zegna in lana merinos color marrone, ma altri avevano cose molto simili, benché tutte di grande qualità manifattura e di design. Forse, queste nuove e antiche lane stanno per sostituire gli short di cotone che, come noto, hanno grandissimi problemi di manifattura e di sostenibilità; molti altri indossano invece maglie tecnologicamente avanzate, come le nuove Uniqlo stampate in 3D, estremamente gradevoli nel rapporto con il caldo e con il freddo.

In questi mesi a Milano è esploso il fenomeno trapper.  Per tre volte sono uscito a vedere di persona di che cosa si trattasse, che cosa fosse questo fenomeno delle periferie milanesi, e ci sono andato indossando vecchi abiti giapponesi semi-tradizionali. Quando mi sono trovato a camminare per questi quartieri, si è avvicinato un giovane, chiedendomi dove avessi preso quegli abiti. Erano tutti molto eleganti, estremi ed è bastato questo perché entrassimo in contatto. Questo ci racconta quanto sia ancora forte l'impatto dell’abito. In questo momento di grande preoccupazione, speranza e partecipazione sul mondo dell'intelligenza artificiale, scopriamo in realtà che le tre grandi intelligenze a cui siamo sottomessi, quella umana, quella artificiale e quella naturale, in realtà siano forse in opposizione o forse siano espressione di uno stesso inizio di descrizione della struttura del pianeta. Nel mondo, l’uso delle intelligenze artificiali, così come nel design e nel difficile utilizzo in quanto lo strumento stesso, lavora su ciò che esiste, su ciò che è conosciuto e continua questa infinita combinazione di elementi che cercano una soluzione di sintesi.

Tutto questo non è altro che la “prova” di questo momento, dell'affollamento della nostra immaginazione, dove immagini, immersione, realtà, coincidono, in questo immaginare problematicamente saturo, un affollamento asfittico, di stimoli indistinguibili .

Ogni domanda ha una/due/mille risposte su ogni luogo su cui si è posato un piede.

Questo fondamento dell'immaginazione ci porta anche a riflettere su cosa oggi la moda potrebbe produrre per continuare a partecipare alla costruzione dell’estetica che è tipica degli abiti.

Dopo il 2019, alla grande mostra “Camp: notes on fashion” al Metropolitan Museum di New York,  abbiamo  visto il limite di questa immaginazione affollata: mille proposte, mille idee, che in questi vent’anni hanno rivoluzionato il nostro modo di vivere, specialmente nel mondo estetico e superando le frontiere del kitsch, poi del trash, poi del camp. E come ci hanno anche portato a una fusione tra realtà e immaginazione, una storia che è iniziata negli anni Settanta con i voli sulla luna che hanno anche coinciso con la grande esplosione della fantascienza.

Oggi è molto semplice immaginare, come:

Cos'è il momento in cui ci si veste?

Com’è organizzato il nostro guardaroba?

E il  nostro zaino?

Il nostro piccolo trolley,  mentre viaggiamo,  credo che sia una  riduzione dello spazio a disposizione della scelta dell'accumulo, che  sia una delle vie per ritornare ad essere,  e anche a comporre.

Essere funzionali e fare delle scelte prima dell'uso, anche pensando alla compatibilità  degli elementi.

In questi giorni sono in ospedale, e mi vesto con una tuta della SwissAir e un orologio IPhone di Hermès arancione.

Guardo fuori dalla finestra, la brughiera si sta mangiando il parcheggio, stamattina c'era un daino che sgranocchiava ferocemente la corteccia di un giovane albero, nella prima fila del parcheggio una serie di posti di ricarica per le auto elettriche.

 

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