Se Carmen rappresenta l’anarchia, la madre di José rappresenta il contrario: l’ordine e la disciplina 

L'inno anarchico della Carmen

Damiano Michieletto

Bizet, una madre ossessiva e un’eroina tragica, uccisa perché un uomo non poteva sopportare la sua libertà

Perché le eroine delle tragedie liriche sono sempre destinate a morire? “Aida”, “Traviata”, “Bohème”, “Tosca”, “Rigoletto”, “Pagliacci”, “Otello”, “Norma”… In ognuna di queste storie c’è una donna che muore.  Muore di malattia o di stenti, muore perché condannata dalla legge, muore suicida o assassinata per mano di un uomo. E, di solito, l’uomo che la uccide è quello che dice di amarla.  L’elenco è lungo e tra i vari nomi di queste eroine tragiche che vengono uccise, quello di Carmen è senza dubbio il più famoso e affascinante nella storia del teatro. 

  

Fidanzamento, matrimonio… Non fanno parte del vocabolario di Carmen. “Il cielo aperto, la vita errante, per patria l’universo”

  

Carmen è la storia di un femminicidio: una donna libera che viene uccisa da Don José, l’uomo che, appunto, dice di amarla. Carmen e José non sono sposati, non sono neanche fidanzati. Queste del resto sono parole inconcepibili per Carmen: fidanzamento, matrimonio… Non fanno parte del suo vocabolario. Per lei esiste solo la parola “amore” e, appena entra in scena la prima volta, Carmen ci dice esattamente cosa sia per lei l’amore, attraverso una metafora: l’amore è come un uccello selvatico che nessuno può addomesticare perché non ubbidisce a nessuna regola e non ha mai conosciuto legge. Non ci sono regole, non c’è possesso: l’amore per Carmen segue l’istinto. Oggi c’è, domani chissà. Non ci sono lacrime o attese romantiche, gelosie, sofferenze, struggenti lettere. Carmen non sa neanche scrivere, non è mai andata a scuola. La sua scuola è la strada e il valore più alto per chi intende la vita come la intende lei è la libertà: “Il cielo aperto, la vita errante, per patria l’universo, e soprattutto la cosa inebriante: la libertà!”. Un inno anarchico, un brivido esaltante. 

 

Essendo la libertà la cosa più importante, Carmen riconosce di essere in debito con José, l’uomo che per scioglierla dall’arresto è stato degradato e ha dovuto subire un mese di prigione. Se Carmen rappresenta l’anarchia, la madre di José rappresenta il contrario: l’ordine e la disciplina. Così, quest’opera diventa il contrasto tra due modelli femminili opposti su tutto. Da un parte la nomade ribelle e immorale, dall’altra la custode della casa, devota e materna. La madre non compare mai in scena, ma c’è: è arrivata lì a due passi da Siviglia con l’obiettivo di riportare a casa il figlio. La storia infatti è ambientata in Andalusia, siamo nel sud della Spagna, ma José invece è navarro, viene da molto lontano, dal nord, al confine con la Francia. In famiglia volevano che seguisse la carriera ecclesiastica, ma lui non ci pensa per nulla, anzi, una volta rimasto orfano del padre se n’è andato per seguire la sua strada. Però non ci riesce, perché vive costantemente perseguitato da un senso di colpa verso la madre, che sente di aver abbandonato. La madre tesse una tela invisibile attorno al figlio: si trasferisce a pochi chilometri da Siviglia per cercarlo, gli invia dei soldi e lettere sentimentalmente ricattatorie nelle quali dice di perdonarlo e di attenderlo a casa, scavando nel suo senso di colpa. Lo tratta, insomma, come se fosse un bambino, incapace di badare a se stesso. Per lui ha già infatti pensato a tutto: gli ha trovato una brava ragazza, un’orfana di nome Micaela, a cui ha affidato il compito di portare a casa il figliol prodigo.

   

La madre di José pare avere i connotati della Bernarda Alba creata da García Lorca. Regole ferree, moralità oppressiva

   

La madre di José pare avere i connotati di Bernarda Alba, il personaggio creato da García Lorca per la sua omonima tragedia: entrambe vedove, entrambe  occupate a fare in modo che i figli obbediscano alle loro regole ferree soprattutto in fatto di sessualità, dove la loro morale si fa oppressiva. Nella sua tragedia “La casa di Bernarda Alba”, García Lorca inventa il personaggio di una donna tirannica, disposta a tutto pur di mantenere l’ordine nella sua casa che (non a caso) diventa il titolo dell’opera. Quella casa in cui alla fine dovrà regnare solo il silenzio: “Almeno è morta vergine”, dirà Bernarda Alba riguardo alla figlia dopo che si sarà impiccata, incapace di reagire alla violenza domestica a cui è sottoposta.  Un’altra donna che muore… 

 
Allo stesso modo pare comportarsi la madre di José: vuole che il figlio torni a casa. Questo ricatto è potentissimo e fa breccia nella fragilità di José. Un dettaglio è illuminante: appena incontra Carmen, José ne è affascinato e inebriato, ma subito dopo, quando Micaela gli recapita la lettera della madre, ecco che  il suo giudizio verso Carmen è immediatamente cambiato e la definisce un pericoloso demonio. Perché è avvenuto questo cambiamento così repentino? José ha indossato lo sguardo della madre, per la quale Carmen è la nemica numero uno da eliminare.  Gli autori del libretto, Henri Meilhac e Ludovic Halévy, creano dunque l’antagonista di Carmen e José è schiacciato da questo conflitto, incapace di sanarlo. C’è un altro momento nella storia che mi ha sempre colpito ed è rivelatorio. Siamo alla fine del terzo atto, José ha appena sconfitto il suo rivale in un duello brutale a colpi di navaja ed è pronto per andarsene via con Carmen che ora ha rinsaldato il suo amore per lui dopo aver assistito a quello scontro istintivo e animale; potrebbe essere una storia a lieto fine, ma proprio in quel momento, con perfetta perizia drammaturgica, arriva Micaela, per l’ultima volta, con la notizia che la madre sta per morire e vuole rivedere il figlio, anzi: “Tua madre non vorrebbe morire senza averti perdonato”. Ci risiamo, come all’inizio. Questa donna non ha mai mollato la presa. José ha un dilemma amletico: andare o non andare? Questo è il problema…

 
Ora, possiamo farci delle domande su questi personaggi e ragionare provando ad immaginare “cosa succederebbe se…”, per tentare di comprendere chi siano questi uomini e donne che si agitano sul palcoscenico. Direi che a questo punto José ha per lo meno tre possibilità: non torna a casa e lascia che i morti seppelliscano i loro morti; torna a casa e mette fine alla relazione con Carmen; torna a casa con Carmen e le due donne si incontrano…

 
La terza sarebbe una scena interessante e teatralissima: il figlio che torna dalla madre morente (sarà poi vero che è morente o è una scusa?) assieme alla donna che lui ama e sua madre invece odia. Ma per José presentarsi con Carmen al capezzale della madre non è immaginabile, perché significherebbe ucciderla. Infatti non lo fa e sceglie la seconda ipotesi, se ne va mentre Carmen lo ascolta e non dice nemmeno una parola, consapevole che in quel momento termina la loro storia d’amore. La madre ha vinto. Il figlio è tornato a casa. Chissà cosa si saranno detti José e la madre morente, in quell’ultimo incontro: ci sarebbe spazio per un sequel…

  

Non appena compie l’omicidio, José si costituisce. Il ritratto di un uomo debole, immaturo, incapace concepire l’autonomia femminile

  

José ritroverà poi Carmen e la ucciderà, quasi a culminare lo schizofrenico dissidio interiore che questa conflittualità ha creato in lui: Carmen che lo ha portato sulla cattiva strada, Carmen che gli ha fatto abbandonare la divisa e lo ha trasformato in un bandito, Carmen che ballava con chiunque le andasse a genio, Carmen che per sua madre era il demonio, il diavolo, la peccatrice. Carmen che non ubbidiva alle regole morali e al modello femminile con cui lui è stato cresciuto. Non appena compie l’omicidio, José si costituisce immediatamente e confessa: sono stato io, potete arrestarmi.  Davanti al cadavere della donna che diceva di amare, abbiamo il ritratto di un uomo debole, immaturo, incapace concepire l’autonomia femminile, schiacciato da un modello culturale pronto a trasformare la donna in demonio non appena esca dalle regole della morale. Il femminicidio è sempre un problema culturale.

   

Ma perché le eroine delle tragedie liriche sono sempre destinate a morire? L’eccezione di “Jenufa”, opera del 1904 di Leos Janacek

   

Ma perché le eroine delle tragedie liriche sono sempre destinate a morire? Perché tra essere e non essere, non può esistere anche una terza via?   Conosco solo un’opera tragica in cui l’eroina femminile alla fine non muore. Si tratta di Jenufa, opera del 1904 di Leos Janacek. Il titolo prende il nome dalla protagonista, Jenufa, una ragazza incinta all’insaputa di tutti e costretta a partorire in segreto. Subito dopo il parto, il neonato viene ucciso dalla matrigna che vuole ripulire l’onore della ragazza.  Quando il cadavere sarà casualmente scoperto Jenufa rischia di essere linciata dalla folla che la crede l’autrice del delitto. A questo punto ci sarebbero tutti i presupposti per un classico finale tragico in cui la donna, distrutta dal dolore della perdita del figlio e trattata da tutti con disprezzo, si suicida. Invece in questa rara occasione avviene una cosa del tutto diversa. 

  
Non solo Jenufa perdona la matrigna che ha compiuto il delitto, ma decide di accogliere l’affetto di Laca, un uomo che è sempre stato ai margini della vicenda e ha provato per lei un amore disinteressato. Dopo tanto dolore e crudeltà, si apre una terza via, quella di una nuova vita. Sono entrambi due sconfitti, due anime ferite, ognuna con le proprie cicatrici, ma hanno il coraggio di trovarsi, di guardarsi negli occhi e  aprire una terza via: “Tu vuoi andare per il mondo in cerca di una vita migliore e non mi prendi con te, Jenufa?”.

 

Al di là della mia passione per Janacek, per la sua caparbietà nel condurre una scrittura musicale personale, onesta, radicata nella sua storia e nella sua lingua, Jenufa rappresenta appunto un caso raro in tutta la storia del teatro per il modo in cui l’eroina femminile porta a termine il suo viaggio. Dunque non è sempre vero, come si diceva all’inizio, che le eroine delle tragedie liriche sono sempre destinate a morire, e Jenufa non muore perché è una storia immaginata e scritta da una donna, a differenza di tutte le altre. Forse il motivo è questo.

 
L’autrice del racconto da cui è tratta l’opera è infatti Gabriela Preissová, scrittrice e drammaturga ceca. Il suo sguardo non condanna o non annienta la figura di Jenufa, ma sembra accoglierla con tenerezza e restituirle dignità, le dà  un vestito nuovo da indossare, un vestito profumato e pulito con cui iniziare una nuova giornata, un nuovo domani.
Gli accordi finali crescono con forza, in modo ampio, luminoso, stupendo. E’  un sorso d’acqua per chi stava morendo di sete. E’ quella telefonata che arriva quando non te lo aspetti, quando sembra tutto perduto o irrimediabilmente già scritto. E’ quella persona che ritrovi quando pensavi che la vita non avesse più nulla in serbo per te. E non è meno inebriante dell’anarchia e della ribellione. Non è meno sconvolgente di una coltellata che sigilla una tragedia. Toglie il fiato allo stesso modo, anzi di più, perché sorprende e commuove, scardina le certezze, destabilizza e rilancia la posta in gioco della scommessa sul tavolo della vita. E’ un altro istinto animale che ora parla. Quello della condivisione, di annusare un odore che ci fa riconoscere qualcosa di simile e di cui abbiamo bisogno.