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Libri in libertà nell'epoca del fenomeno Wattpad

Giorgio Caravale

Diritti d’autore evanescenti, testi rimaneggiati, pirateria: cos’ha in comune il futuro dell’editoria e della lettura con i primi secoli della carta stampata. Una cronostoria

La stagione del diritto d’autore sarà ricordata come una parentesi nella storia dell’editoria, un breve seppur importante capitolo della centenaria vicenda del libro a stampa? Il dubbio sorge spontaneo di fronte a fenomeni come quello di Wattpad.com, una piattaforma canadese su cui migliaia di utenti spendono centinaia di milioni di ore commentando, leggendo, scrivendo e riscrivendo centinaia di migliaia di storie in decine di  lingue diverse. Fino alla seconda metà dell’Ottocento, fino a quando cioè in Italia non furono adottate le norme relative al diritto d’autore già varate alla fine del Settecento in Francia, e ancor prima in Inghilterra, il libro godeva di uno statuto molto fragile. L’autore perdeva qualsiasi forma di controllo sul testo quando consegnava il suo manoscritto allo stampatore. Quest’ultimo, per suo conto, poteva godere di un privilegio di stampa rilasciato dalle autorità di governo, una forma di tutela che proteggeva il suo investimento economico impedendo ad altri di ristampare il medesimo testo per un certo numero di anni. Almeno in teoria. Già, perché nella pratica, era sufficiente varcare i confini di uno stato attiguo – allora la penisola italiana era divisa in una miriade di piccoli stati indipendenti l’uno dall’altro – affinché la tutela di quel privilegio di stampa non avesse più alcun valore legale. Alternativamente, era sufficiente modificare una singola pagina, addirittura un solo paragrafo, per sostenere con buone ragioni di aver stampato un libro diverso dall’originale. Privo di diritto d’autore, dunque, protetto solo da qualche parziale forma di tutela commerciale, il testo a stampa era un oggetto alla mercé di uomini di cultura e d’affari, un manufatto che poteva essere ristampato, riscritto, plagiato, modificato senza che nessuno opponesse alcuna resistenza, tantomeno il suo autore.
 

Di qui una profluvie di ristampe, adattamenti, traduzioni, florilegi, liberamente tratti dai libri a stampa più popolari del tempo, che alimentava il mercato editoriale del cosiddetto antico regime. La pirateria editoriale trionfava ovunque, in Italia come in Europa, e gli autori stessi provavano a sfruttare la fragilità di statuto del libro. Molti di loro continuarono a considerare il libro a stampa esattamente negli stessi termini in cui concepivano il libro manoscritto: un testo la cui pubblicazione non era altro che un passaggio intermedio e provvisorio di un percorso intellettuale ed editoriale ben più lungo e fecondo, un testo sulla base del quale continuare a riflettere aggiungendo, sottraendo, modificando.
 

Il Dulce bellum inexpertis di Erasmo da Rotterdam, per esempio, testo tra i più rilevanti dell’irenismo cinquecentesco, venne progressivamente crescendo sotto l’impulso della meditazione personale dell’autore. La prima versione, contenuta nell’edizione manuziana degli Adagia (1508), era brevissima: contava cinque sole righe, e tale restò nelle successive edizioni fino a quella pubblicata dallo stampatore basileese Froben nel 1515, allorquando crebbe fino a raggiungere l’ampiezza di mille righe. Anche negli anni successivi Erasmo tornò su quel testo: diverse aggiunte comparvero nelle due successive edizioni frobeniane del 1523 (contro i nobili e contro i monaci) e del 1526 (contro i preti politicanti e contro gli scolastici). Solo a questa data l’adagio poté dirsi definitivamente compiuto, in tal forma poi definitivamente consacrato nell’edizione del 1536. 
 

Lo stesso avvenne con uno dei testi più celebri dell’Illuminismo europeo come l’Encyclopédie di Diderot, la cui edizione più diffusa nella Francia del Settecento conteneva centinaia di pagine che non comparivano nell’edizione originale: persino Voltaire considerò l’Encyclopédie così imperfetta e incompiuta che pensò alla sua ultima grande opera, Questions sur l’Encyclopédie, come a un sequel di nove volumi all’Encyclopédie stessa.
 

Spesso furono gli autori stessi ad approfittare dell’assenza di copyright per ottenere la massima diffusione possibile del loro testo. Ci fu chi arrivò a vendere il medesimo scritto con titoli differenti a due o tre editori, e chi ripubblicò le proprie opere con stampatori diversi e in luoghi diversi, semplicemente aggiungendo qualche piccolo brano o cambiando la lettera prefatoria. Lo stesso Erasmo fu più volte esortato dallo stampatore fiammingo Josse Bade a limitare le ristampe dei suoi scritti. Una nuova, ravvicinata edizione, in tutto e per tutto simile alla precedente, o contenente più o meno rilevanti modifiche, rischiava di costringere lo stampatore “ufficiale” a gettare al macero l’intera tiratura. Come gli ricordò Bade, “la sua reputazione tra i colleghi è tale che se lei annuncia un’edizione rivista di una qualsiasi delle sue opere, anche se non ha aggiunto nulla di nuovo, essi penseranno immediatamente che la vecchia edizione sia priva di valore”. In fondo, era la logica stessa del mercato editoriale a ispirare simili operazioni. Invece di essere prodotti in enormi quantità da un singolo editore, i bestseller venivano stampati simultaneamente in tante edizioni a bassa tiratura da molti editori, ognuno dei quali cercava di ricavare il massimo da un mercato del libro libero, appunto, da diritto d’autore. Non potendo rivendicare alcun diritto su ciò che avevano scritto, non aspettando dunque alcun tornaconto economico dalla loro attività intellettuale, gli autori non potevano che gioire della proliferazione di nuove edizioni e ristampe delle loro opere, accogliendola come l’ennesima conferma del proprio successo.
 

La cultura del libro a stampa, esattamente come quella del testo manoscritto, fu dunque a tutti gli effetti una cultura della correzione che vide all’opera tanti attori del mondo librario, tutti intenti a modificare, manipolare, ripensare testi già stampati o in procinto di essere pubblicati, per presentarli infine al pubblico dei lettori in una veste a loro avviso più consona allo spirito dei tempi o, più semplicemente, alle loro personali inclinazioni, o ancora alle prospettive di vendita e circolazione che quella versione sembrava garantire.
 

Oggi siamo molto più vicini a quella cultura della correzione di quanto non fossimo solo vent’anni fa. E il libro sembra tornato alla fragilità di statuto che lo ha caratterizzato nei primi tre secoli della sua esistenza. I più moderni strumenti tecnologici di comunicazione favoriscono l’affermazione di un processo collettivo di creazione letteraria e artistica che tende a sostituire la tradizionale figura del singolo autore, attribuendo all’opera un carattere permanentemente provvisorio e incompiuto, svilendo dunque in modo consapevole l’idea di copyright. Attraverso piattaforme come Wattpad i testi, vere e proprie storie romanzate, vengono condivisi in forma libera e gratuita dagli utenti, per essere poi successivamente modificati, rimaneggiati, riscritti da centinaia di lettori pronti a contribuire alla loro rielaborazione, a riscrivere per l’appunto, e a commentare. Questo processo di condivisione implica, diversamente da quanto accadeva durante l’antico regime della cultura libraria, una confusa ma fruttuosa sovrapposizione tra le figure del lettore, dello scrittore e del critico. Chi condivide le proprie storie si ferma a commentare criticamente le altre, chi legge aggiunge frasi o pagine di proprio pugno. Qui la letteratura viene letta, scritta e discussa criticamente senza sosta. E non si tratta di poche decine di utenti. Nell’agosto 2019, per rimanere ai dati della canadese Wattpad, 980 milioni di persone, per lo più giovani, hanno trascorso circa 250 milioni di ore su questa piattaforma e ogni giorno hanno scambiato letto o scritto circa 100 mila storie in 50 lingue diverse: sono i lettori intensivi e gli autori giovani e assidui di cui i critici culturali e gli statistici deplorano l’assenza. Ne ha scritto recentemente lo storico tedesco Gerhard Lauer in un saggio contenuto nel volume Leggere in Europa, curato da Lodovica Braida e Brigitte Ouvry-Vial per Carocci (2023).
 

La sfida al diritto d’autore non è però certo l’unica che l’industria editoriale deve fronteggiare oggi. Il rapido sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale creativa e generativa sta mettendo radicalmente in crisi l’intero universo della traduzione. Traduttori e traduttrici rischiano di vedere le loro competenze superate dal rapido processo di apprendimento di software sempre più sofisticati. E presto potremmo trovarci sui banchi delle librerie romanzi interamente scritti da ChatGPT & Company: con una radicale ridefinizione, anche in questo caso, della questione del diritto d’autore.
 

L’altra grande sfida alla quale dovrà fare fronte l’industria editoriale tradizionale è quella del self-publishing, un’industria mossa da logiche completamente nuove, alimentata dal narcisismo dei lettori, ciascuno dei quali ambisce a essere egli stesso autore di un libro quale che sia, e sostenuta da un mondo della critica in profonda evoluzione. Dal vecchio modello verticale e gerarchico delle poche e autorevolissime recensioni pubblicate sui grandi quotidiani nazionali o sulle principali riviste letterarie si sta lentamente ma inesorabilmente transitando verso un mondo segnato dalla disordinata orizzontalità delle recensioni fai da te, quelle pubblicate su Amazon da lettori e amatori, tanto per intenderci, segnalazioni che prediligono il registro dell’empatia quale metro supremo di valutazione, assimilando indirettamente il libro a un ristorante o a un hotel commentato su Tripadvisor (“mi piace, mi ha fatto commuovere, si legge velocemente”).
 

Il sorprendente, recentissimo successo del libro del generale Roberto Vannacci, Il mondo al contrario, prima auto-pubblicato tramite Kindle Direct Publishing poi riedito da Il Cerchio dopo il boom di vendite, un caso da 240 mila copie in pochi mesi (200 mila nella versione fai-da-te e 40 mila nell’edizione Il Cerchio), è solo la punta dell’iceberg di un universo in piena ebollizione. Al di là del contenuto più che discutibile del volume, un campionario di luoghi comuni sessisti e razzisti appena temperati da una postura populista, il caso Vannacci impone due ordini di riflessioni. Per quali ragioni un autore dovrebbe preferire pubblicare con un editore tradizionale disposto ad accordargli una cifra corrispondente al 7-10 per cento del prezzo di copertina rispetto a una piattaforma di self-publishing che gli garantisce il 60-70 per cento? In ragione del prestigio e della tradizione della casa editrice, della visibilità e della rete di contatti da essa assicurata, si dirà: in nome, insomma, dell’affidabilità e della rispettabilità garantita da un editore referenziato. Le nuove generazioni di autrici e autori però non ragionano con le medesime categorie mentali. Quanto potrà durare il sistema reputazionale del sistema editoriale tradizionale di fronte a un cambiamento, non sappiamo quanto repentino e duraturo, delle fonti di legittimazione del libro? Quando le segnalazioni empatiche delle lettrici e dei  lettori oppure un breve video di un/una booktoker conteranno infinitamente più, in termini di influenza delle vendite, di una pagina di un qualsiasi critico su qualche quotidiano nazionale, quando insomma la legittimazione di un prodotto editoriale agli occhi del pubblico giungerà attraverso canali completamente nuovi. Sono domande alle quali non siamo in grado di rispondere, legate peraltro a fenomeni dei quali non possiamo prevedere la durata e la profondità, che tuttavia fanno riflettere sui mutamenti in corso
 

Nel frattempo, mentre iniziamo a intonare anzitempo il de prufundis di un mondo che forse non esisterà più forse invece resisterà molto più a lungo di quanto alcuni segnali lascerebbero intuire, possiamo rallegrarci che il libro, inteso come oggetto e simbolo, è oggi in splendida forma. Tutti, o quasi, mi riferisco alle donne e agli uomini del mondo dello spettacolo, dello sport, della politica, delle professioni, vogliono pubblicare un libro. Il libro pubblicato è uno status symbol, qualcosa che certifica la notorietà, la dimensione pubblica della propria reputazione, qualcosa cui tutti, da qualsiasi ambito professionale provengano, ambiscono. E questa, al di là dell’istinto elitario che ci indurrebbe a difendere il libro come veicolo di una cultura esclusivamente alta, è probabilmente la notizia migliore tra quelle sin qui raccontate. 
 

Riflettendo sulle abitudini intellettuali degli italiani, alla metà del secolo scorso Luciano Bianciardi, noto scrittore e critico televisivo, scrisse che nel nostro paese “moltissimi scrivono e pochissimi leggono”. Oltre cento anni prima, in termini molto simili, Giacomo Leopardi aveva sottolineato che nella penisola italiana erano “più di numero gli scrittori che i lettori”. E’ probabile che questa nuova ondata di scrittori non professionisti, influencer, sportivi, showman e showgirl, spesso coadiuvati da eserciti di ghostwriter, questi sì professionisti, non facciano che rafforzare le impressioni che Leopardi e Bianciardi avevano espresso tempi addietro. 
 

Si legge poco e, spesso, si legge per scrivere. Questa però è un’altra storia. A meno che, grazie a piattaforme come Wattpad, la scrittura e la lettura non rimangano più due atti separati seppur collegati tra di loro, ma arrivino a coincidere fino quasi a sovrapporsi. Sarebbe un capitolo tutto vecchio e allo stesso tempo tutto nuovo nella storia della cultura scritta.

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