“La clinica Agnew” di Thomas Eakins, 1889 (Wikipedia) 

1899. Ritratto dei poteri forti

Ma il chirurgo che sbaglia non paga mai. È la società dell'ingiustizia

Il compromesso fra il potere giudiziario e le categorie di professionisti. Come potrebbe un medico operare, se dovesse temere l'azione penale?

Roberto Volpi

All’indomani dell’Unità, stato liberale e borghesia professionale stringono la loro alleanza. Anche a spese degli ultimi, come il piccolo Paolo Cravarolo. Storia della prima querela contro la malasanità

Siamo proprio agli sgoccioli del XIX secolo quando Giovanni Cravarolo, muratore, si decide a sporgere querela contro due medici e il presidente del consiglio di amministrazione dell’ospedale San Giovanni di Torino per quello che era successo a suo figlio Paolo di otto anni. Accompagnato all’ospedale da una guardia municipale il 3 febbraio per essersi rotto il braccio cadendo mentre giocava in un prato dietro casa, il bambino viene medicato provvisoriamente e richiesto di tornare dopo qualche giorno, quando gli fu praticata una “fasciatura ingessata”. Il bendaggio doveva essere ben stretto, perché il bambino dovette, per i gran dolori, tornare già il giorno dopo. Ma il medico, non quello della fasciatura del giorno prima, un altro, non ritenne di metter mano a una nuova fasciatura meno stretta e si limitò a dire al padre del bambino, Giovanni Cravarolo, appunto, di riportarlo in ospedale per controlli dopo 12 giorni. Morale della favola: il giorno 10 febbraio, a una settimana dalla caduta, il piccolo Paolo dovette tornare di gran carriera in ospedale: il braccio era rigido, la mano nera, i dolori insopportabili. Il medico che aveva praticato la fasciatura gessata, visitatolo, si scagliò contro il padre, responsabile a suo dire di colpevole ritardo per aver portato il figlio in ospedale quando ormai rischiava di perdere la mano. Che infatti gli fu tagliata fino all’avambraccio. Giovanni Cravarolo cercò inutilmente, nei mesi successivi, di ottenere un qualche risarcimento. Fino a quando, visto inutile ogni tentativo, non si decise alla querela. La prima di quel tipo di cui si abbia contezza. Era il 24 novembre del 1899

       
Se c’è un caso che spiega più di cento saggi e manuali cos’era l’Italia di allora, cos’era la medicina e la classe medica, cos’era la giustizia e il potere giudiziario, cos’era lo stato liberale e la borghesia professionale, nei loro errabondi e tuttavia così già ben instradati e standardizzati intrecci, beh, allora non ce n’è uno più paradigmatico ed emblematico di questo. Il caso di Giovanni Cravarolo e della sua querela spiega tutto quel che c’è da spiegare al riguardo. Anche quello che non si vede, che non traspare, che resta celato in angoli non illuminati

    
E’ un caso di gratuito patrocinio, intanto e per prima cosa: dove li ha i soldi un muratore a giornata come il Giovanni Cravarolo per un avvocato? Un caso, secondo punto, che mette sotto accusa, o almeno si prova a farlo, nell’ordine: il medico che quando il bambino torna perché la fasciatura gessata gli fa male si limita a rispedirlo a casa dicendogli di tornare 12 giorni dopo; il medico responsabile dell’accettazione di quel giorno; il presidente del consiglio di amministrazione dell’ospedale. 

 

Vengono denunciati due medici e il presidente del consiglio di amministrazione dell’ospedale. Il muro invalicabile dell’istruttoria

    
Cravarolo è sì un muratore, ma ha senz’altro capito che sopra un medico c’è pure un reparto col suo responsabile e sopra un reparto un’amministrazione col suo presidente: tutti colpevoli. Per lui, s’intende; perché per la giustizia non sarà nient’affatto così. E qui arriviamo al terzo punto: perché se il Cravarolo muratore è assistito gratuitamente da un avvocato restio a fare anche il minimo sindacale per difendere le sue ragioni, gli imputati hanno le spalle, sotto l’aspetto strettamente giudiziario ch’è poi l’unico che a loro importa, e che conta nella fattispecie, ben altrimenti coperte. Per loro c’è un collegio di difesa che colloquia a meraviglia col giudice istruttore, che del resto non ha occhi, e orecchie, che per esso. Occhi e orecchi tanto partigianamente spalancati che, ovviamente, non si arriverà neppure al dibattimento. L’accusa di “imperizia” verrà respinta al mittente. Quella poi per l’eventuale malfunzionamento dell’ospedale non se ne parli neppure. La querela s’infrange contro il muro della fase istruttoria, senza procedere oltre. Il buon Giovanni, dopo aver fatto la spola più volte con l’ospedale, aveva magari capito che doveva esserci una responsabilità più ampia di quella del singolo medico se era stata amputata la mano al figlioletto fino all’avambraccio, così rovinandolo per tutta la vita, ma non gli intrecci di potere. Quelli, per quanto potesse intuirli, dovevano apparirgli lontani e inafferrabili. Pure, proprio quegli intrecci avrebbero deciso della sua querela e del fatto che non avrebbe ricevuto un centesimo per l’invalidità permanente che la malasanità, col supporto insostituibile della malagiustizia, aveva procurato a un bambino di otto anni colpevole di essere caduto mentre giocava nel prato dietro casa.

  
Ma, attenzione: di malasanità, e pure di malagiustizia, parliamo noi oggi a ripercorrere quella vicenda. Ma nessuno osò dirlo allora. E probabilmente neppure lo pensò. Non una voce si alzò fuori dal coro. Non semplicemente, come si è portati a credere d’emblée, per una sorta di generalizzata complicità, o connivenza, con quelli che, almeno nella fattispecie, erano i centri del potere. Forse anche per questo, non si può escluderlo, ma ancor più e prima in quanto una tale asimmetria, un tale ribaltamento dei ruoli tra accusatore e accusato mai si era vista né immaginata: un muratore povero e incolto che accusa tre esponenti della buona borghesia professionale, peraltro appartenenti a una corporazione in grande ascesa come quella medica, pretendendo di portarli sul banco degli imputati? Inconcepibile. Ed ecco perché a questo punto c’è da illuminare meglio lo scenario su cui si svolsero allora i fatti, per andare davvero al fondo di quella vicenda e capire quel che può dirci ancora oggi.

  

L’ospedale, che ormai caratterizza il tessuto urbano e la vita delle città, svolge anche la funzione di controllo sociale di un’umanità al limite

  
Intanto la querela, la prima nel suo genere – si è detto. Anomala quanto più non si sarebbe potuto. Un muratore senza arte né parte, né il becco di un quattrino, che va all’attacco di medici e ospedale, il più importante di Torino, per “lesioni involontarie per imperizia nell’arte sanitaria”? La cosa non era solo impensabile, era anche pericolosa, molto pericolosa per l’istituzione ospedaliera e la sanità tout court. Perché un conto è un medico e tutt’altro conto l’ospedale. Alla condanna del medico si può anche pensare di far fronte in qualche modo. Ma a quella dell’istituzione? Immaginarsi se fosse stato condannato addirittura il presidente del consiglio di amministrazione, peraltro personaggio assai politicamente influente nella Torino di allora. Ipotesi da non tenere neppure in considerazione, data l’enormità.

 

L’ospedale, che ormai caratterizza il tessuto urbano e la vita delle città, specialmente delle più grandi, per quanto lontano da standard igienico-sanitari e organizzativo-funzionali come quelli che conosciamo e pretendiamo oggi, luogo dove ci si ammala con la stessa facilità, se non di più, con la quale si guarisce, svolge una doppia funzione: di assistenza medica, indubbiamente, ma anche di controllo sociale di un’umanità che staziona sul crinale di bisogni essenziali mai del tutto soddisfatti e dunque propensa tanto ad ammalarsi come a delinquere. E’ un autentico pilastro, essenziale all’affermazione dello stato borghese moderno che non per niente all’ospedale chiede sempre più assistenza medica, e dunque qualificazione medico-sanitaria, e meno controllo sociale. Per rigettare la possibilità di un coinvolgimento dell’ospedale non c’era strategia più appropriata di quella di rigettare in toto le accuse del querelante, anche quelle al medico che aveva in tutta fretta rispedito a casa un bambino afflitto da dolori insopportabili senza neppure l’accortezza, minima, di allentargli la fasciatura (cosa che fece con un taglietto di forbici un infermiere all’insaputa del dottore, evidentemente senza risultati apprezzabili).

    

Una legge del 1888 aveva appena stabilito che per esercitare l’arte della medicina occorreva tanto di laurea. Contro le pseudoscienze

   
E se l’ospedale andava salvaguardato per primo, anche i medici era meglio se venivano messi al riparo dal rischio di ritrovarsi condannati per non aver saputo svolgere il proprio lavoro. Come e più che non l’ospedale, peraltro, il potere dei medici andava crescendo sensibilmente, dopo periodi se non secoli di discredito della loro opera (si pensi, un nome su tutti, al Molière de “Il malato immaginario”). E questo per due motivi. Il primo, decisivo, di carattere legislativo. Una legge del dicembre del 1888 aveva appena stabilito che per esercitare l’arte della medicina occorreva tanto di laurea. Ciò che appare oggi pacifico, allora non lo era affatto; era un mondo, quello della salute e delle malattie di allora, in cui impazzavano letteralmente a ogni angolo guaritori e ciarlatani, maestri dell’ipnosi e dell’intrigo, elisir di lunga vita e fantasmi che, evocati, arrivavano dalle tenebre d’oltretomba per dettare rimedi e fare miracoli contro l’umano soffrire. La legge suddetta avrebbe messo, è vero, un freno a tutto ciò ma pagando il prezzo di dare per scontata – non erano forse laureati in un tempo in cui di lauree non se ne vedevano? – la capacità professionale dei medici, con ciò  concedendo loro una sorta di irresponsabilità di fronte ai loro stessi atti, per convenzione ritenuti  “appropriati a guarire” – e questo massimamente di fronte al potere giudiziario, che con quello medico  stabilisce allora una solida alleanza de facto ch’è alleanza tra corporazioni che sanno e sentono di rappresentare il fulcro del nuovo stato liberale.

 

Diverse conquiste segnano una contrazione della mortalità, specialmente infantile, e un conseguente aumento della vita media

  
Ma c’era un secondo motivo, più reale che formale, stavolta, che accresceva il prestigio dei medici, e consisteva nel distacco, ormai pressoché compiuto, della medicina dagli ambiti della pseudoscienza di salassi e cataplasmi come della superstizione e delle pratiche magiche di cui era imbevuta. L’Italia veniva da un secolo, l’Ottocento, che finalmente volgeva alla fine, in cui non c’era stato decennio risparmiato da crisi epidemiche gravi: tifo, vaiolo e soprattutto colera non avevano dato tregua agli italiani, specialmente a quelli delle classi subordinate e povere. E in questo imperversare la medicina era cresciuta. L’introduzione della vaccinazione aveva debellato il vaiolo, la cui ultima crisi, peraltro lieve, si ebbe nel biennio 1870-71; mentre sotto l’impulso di medici-igienisti si cominciava a metter mano alle disastrose condizioni igienico-sanitarie delle città e delle abitazioni approntando in primo luogo reti fognarie di cui era gravemente sguarnito il paese tutto; e sotto quello di altri medici ancora, che oggi chiameremmo nutrizionisti, si lanciavano le prime campagne educative per una alimentazione che, ancorché povera, proteggesse da malattie quali lo scorbuto e la pellagra, legate a diete monocordi e a mancanza di frutta. Si era ancora ben lontani dai farmaci salvavita, la stagione degli antibiotici si aprirà solo a partire dal secondo dopoguerra, ma non c’è dubbio che medico e medicina avevano conquistato negli ultimi tre decenni dell’Ottocento – che non per niente segnano una contrazione della mortalità, specialmente infantile, e un conseguente aumento della vita media – sia un accresciuto e meglio definito profilo tecnico-professionale che un nuovo prestigio nella società. 

      
Alla luce di tutto questo, e per concludere, il Giovanni Cravarolo cascava male, andando a ingaggiare una dura lotta nelle condizioni di estrema inferiorità cui si accennava e per di più in un momento in cui la figura del medico, oltre che circondata da un alone di irresponsabilità, si stava conquistando una considerazione e una fiducia prima sconosciute.

   

In altre sentenze si scrive nero su bianco che “il solo sospetto di imperizia non era possibile, trattandosi di un chirurgo di chiara fama”

  
In aggiunta si deve anche sottolineare, e con ciò entriamo nella problematica che più direttamente arriva a coinvolgere il potere giudiziario, che l’accusa di “lesioni involontarie per imperizia nell’arte sanitaria” è accusa ancora oggi difficile da provare, figurarsi allora. In un saggio illuminante da cui abbiamo preso le mosse (Medici, ciarlatani e magistrati nell’Italia liberale) dall’Annale VII (Malattia e medicina) della Storia d’Italia Einaudi, Ada Lonni racconta di una sentenza dell’Alta Corte di giustizia del 1901 in cui si accerta il reato – una garza dimenticata nell’addome di un paziente che ne aveva affrettato la morte conseguente all’operazione; difficile poter dire che reato non c’era – ma ci si rifiuta di riconoscere il colpevole. Chi ha dimenticato la garza? Il chirurgo che ha fatto l’operazione o il medico che ha fatto la medicatura successiva all’operazione? Ah, saperlo. E così l’Alta Corte poté concludere che “l’incertezza domina nel processo”, mandando assolti chirurgo e medicatore per insufficienza di prove. Per la verità fece perfino di più, perché non si peritò di mettere nero su bianco che “il solo sospetto di imperizia non era possibile, trattandosi di un chirurgo di chiara fama”. E aggiungendo, per giustificare l’assoluzione, una motivazione che non poteva sapere quanto sarebbe diventata attuale più di un secolo dopo, ai giorni nostri. Diceva dunque l’Alta Corte di giustizia che mandava assolti i medici responsabili della garza dimenticata nell’addome del paziente, che ne morirà, che “se l’operatore dovesse temere l’esercizio dell’azione penale in ogni caso di risultato fatale, la mano gli tremerebbe e sarebbe inutile l’attendere quei tagli meravigliosi e audaci, che spesso assicurano la vita e ridanno la salute”. Della serie, per capirci, “si prega di non disturbare il macchinista”. Ma su questo punto torneremo in ultimo.

   
Chiediamoci piuttosto se il comportamento del potere giudiziario che appare così schiacciato sulle ragioni della categoria medica ogni volta che gli si presentano casi che ne chiamano in causa qualche esponente – e che non saranno neppure alla lontana tutti quelli che potrebbero essere, apparendo ben chiaro a tutti che spuntarla nelle accuse contro i medici è impresa ai limiti del possibile – non prefiguri una sorta di subordinazione, se non proprio un complesso di inferiorità del primo nei confronti della seconda. Non è così. Messo di fronte a una medicina che comincia a funzionare e guarire, che si fa scientifica, che si avvale di figure la cui professionalità è documentata dalla più prestigiosa delle lauree, il potere giudiziario è come se in piena autonomia decidesse di sgombrarle la strada da possibili intoppi e, per quanto poteva, di non frapporre ostacoli alla sua ascesa professionale e sociale, di fama e prestigio. Oltretutto il potere giudiziario sente, ma non si tratta di un sentimento di inferiorità, piuttosto di diversità, che mentre la classe medica è immersa fino al collo nella realtà e nelle contraddizioni del tempo, esso, il potere giudiziario, non si muove veramente nel tessuto e nel contesto sociale, nelle sue miserie e difficoltà, non lo bazzica, non lo conosce, ne viene edotto attraverso dibattimenti che lo deformano, al limite non lo capisce, se proprio non se ne disinteressa. Nel caso di Giovanni Cravarolo, per tornare al nostro punto di partenza, ch’egli sia un poveraccio con un lavoro di muratore malpagato sempre a rischio di perderlo, e che dunque deve fare i salti mortali anche soltanto per portare all’ospedale il figlio a passare una visita, per i giudici non significa niente, nessuna attenuante gli viene concessa, gli si contesta piuttosto una scarsa sensibilità per le condizioni del figlio, una mancanza di paterna sollecitudine. 

   
Il punto è che il potere giudiziario si sente impegnato a preservare ruoli e ristabilire equilibri; a garantire a suo modo e coi suoi strumenti la pace sociale, o il suo simulacro, o quel che crede che sia, e implichi, la pace sociale. Non per niente lo scontro vero tra le parti, querelante e querelato, accusatore e accusato, è quasi sempre nella fase istruttoria che si risolve, perché se da questa si passa alla fase del dibattimento, del processo vero e proprio, allora i giochi sono fatti e, sorprese a parte, a vincere è il più forte tra i contendenti. Non chi ha ragione, il più forte, il più attrezzato, il più allineato col potere e che, perdendo, ne metterebbe in forse i capisaldi: non solo del suo ma anche degli altri – del potere, si dica pure, in generale.

  
Ma, ancora una volta, dobbiamo rifarci ai tempi, se non vogliamo incorrere in giudizi ingenerosi. Si è ad appena tre decenni dall’Unità e, come sappiamo, fatta l’Italia rimanevano da fare gli italiani. Ora, quando si dice così è sempre al carattere degli italiani che si guarda, alla loro tempra morale. Ma c’era ben altro, in gioco. Tra i nati del 1854, che dunque prestarono il servizio militare alla metà del decennio 1870-1880, l’altezza media raggiunse a stento quel metro e 62 centimetri che collocava l’Italia tra i popoli più bassi d’Europa e della stessa area mediterranea.

 

Carattere antropometrico d’eccellenza, la statura non mentiva, allora più ancora di oggi rappresentava lo specchio delle condizioni, prima di tutto alimentari, ma non solo, di un popolo. Piccoletti, di costituzione gracile, gli italiani hanno alle spalle una storia di malattie straordinariamente ricca e variegata che i disastrosi risultati di una formidabile indagine della Direzione Generale di Statistica, pubblicati nel 1885, sulle “condizioni igieniche e sanitarie dei Comuni del Regno” illuminarono di una luce insieme limpidissima e sinistra. Se a tutto questo si aggiunge un tasso di analfabetismo che, attorno al 70 per cento fino agli anni Ottanta dell’Ottocento, toccherà il 50 per cento, un italiano su due che non sapeva né leggere né scrivere, solo una volta messo piede nel nuovo secolo, il Novecento, si ha un quadro di quel che era l’Italia e di quelli che erano gli italiani ancora alla fine dell’Ottocento in cui si svolse la vicenda di Giovanni Cravarolo e del suo figlioletto Paolo. Vicenda che non può essere letta e interpretata con gli occhi di oggi e alla luce della realtà odierna. La verità è che l’Unità d’Italia lasciava impregiudicati, e dunque da fare e modellare, costruire meglio che si poteva, entrambi i poli: l’Italia e gli italiani; lo stato italiano e il popolo italiano. Ed è qui, in questo snodo d’incompiutezza che doveva essere al più presto e con ogni mezzo superato, che prende il via un compromesso impossibile da scansare e che in certo senso continua tutt’oggi: quello tra lo stato e categorie privilegiate di cittadini che operano nei settori portanti delle moderne società, la salute e la giustizia, l’istruzione e l’università, l’amministrazione della cosa pubblica ai vari livelli istituzionali e territoriali, che saranno alla base del nuovo ordine borghese liberale: la nervatura, la struttura portante del paese e insieme la garanzia del suo futuro.

 

La magistratura, baricentro di questo impianto, stronca ogni velleità che possa apparirle contestatrice di equilibri e poteri ancora fragili

   
Il compromesso si può riassumere giusto in quel “non disturbate il macchinista”, o a scelta il manovratore, di cui il buon Giovanni Cravarolo farà le spese. Le fasi di passaggio sono le più difficili e delicate: il passaggio da una storia italiana di frammentazione e rivalità secolari a una unitaria nel segno del nascente stato liberale borghese lo era ancora di più. Le categorie professionali che quel passaggio sostanziano, medici e magistrati, maestri e professori, amministratori e burocrati, debbono poter lavorare in relativa tranquillità, sapendo che godono di poteri di discrezionalità operativa e di giudizio che non saranno revocati o contestati; messi al sicuro, piuttosto, da un equilibrio tra quegli stessi poteri al quale tutti partecipano e del quale tutti traggono vantaggio.  In altre parole: l’una categoria professionale si sostiene anche a spese delle altre, e tutte hanno da guadagnare dalla solidità dell’impianto che le tiene insieme. Così la magistratura, autentico baricentro di questo impianto, stronca senza pietà ogni velleità che possa anche soltanto apparirle rivoluzionaria o contestatrice di equilibri e poteri ancora fragili che abbisognano di sicurezza per dare i frutti migliori. Come potrebbe un chirurgo esercitare al meglio se “dovesse temere l’esercizio dell’azione penale in ogni caso di risultato fatale?”. La mano gli tremerebbe, come non si perita di inferire la sentenza che rigetterà l’istanza di Giovanni Cravarolo, e allora che cosa avremmo ottenuto, tutti noi, popolo e società italiana, da questo sconsiderato controllo, e relativa sempre possibile contestazione, dell’operato di chi è chiamato a fare le cose che sa fare, che ha i titoli per fare, che guai se non facesse?

   
Ne abbiamo fatta di strada, dal tempo di interrogativi di questa portata. Siamo andati avanti, molto e in meglio – impossibile non notarlo. Eppure, attenzione, ne siamo pur sempre i figli.

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