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La recensione

Se l'importante non è capire, ma trasformare la propria vita in un racconto

Marco Archetti

“Elizabeth Finch”, il nuovo romanzo di Julian Barnes chegioca a moltiplicare storie e allusioni tra letteratura, filosofia e realtà

"Le cose sono di due maniere: alcune in potere nostro, altre no”. Lo diceva Epitteto, filosofo i cui ritratti scultorei vennero spesso confusi con quelli di Epicuro. E lo capirà bene Neil, l’io che dice io in questo nuovo romanzo di Julian Barnes intitolato Elizabeth Finch (Einaudi, 176 pp., 18 euro, Susanna Basso che luminosamente traduce). La perla aforistica, però, tocca proprio a lei, a Elizabeth Finch appunto, chiamata EF per tutto il romanzo, da Neil e dalla classe di “Cultura e civiltà” in cui la donna insegna. Ed è questa: “Il mondo è male organizzato perché Dio l’ha creato da solo. Avrebbe dovuto consultare un amico”. 


Lo scambio di vedute – in un senso più alto e socratico, cioè in un senso estinto – è proprio il criterio in cui EF imposta l’insegnamento ai “fuori quota” che si iscrivono al suo corso. Lei ha sempre trovato toccante il fatto che una persona non più giovanissima senta il bisogno di tornare a sedersi tra i banchi per sopperire a qualche lacuna, e in effetti l’esperienza è decisiva anche per Neil, “Re dei progetti incompiuti”, due matrimoni finiti e una carriera da attore nemmeno cominciata. “Ma questa non è la mia storia”, ribadisce continuamente lui, tetragono a comprenderla. In ogni caso gli si crede anche se, tra le fessure della miglior letteratura se ne leggano sempre molte, di storie, e si intercettino i riverberi di qualche allusione, che a volte – spessissimo in Julian Barnes, che gioca a moltiplicarle l’una dentro l’altra o l’una attraverso l’altra – stanno tra la letteratura e la vita, le pagine e la realtà, i raccontatori e i raccontati. “Riguardo alla famosa citazione su tutte le famiglie che sarebbero felici allo stesso modo, e tutte le infelici, diverse tra loro. Ho sempre pensato che Tolstoj si sbagliasse, e che fosse vero l’inverso”. Ed ecco resa giustizia a un pensiero che non avremmo mai avuto il coraggio di formulare, intimiditi dal magistero tolstoiano, eppure è così: l’infelicità è ripetitiva, la felicità è “il risultato di sforzi attivi e di specifiche qualità individuali”. Parola di Neil, passivo vero. Passivo finché Elizabeth Finch, docente diversa da tutti, idee chiare e nessuna intenzione di inculcarle, concentrato di candore e ritrosia, muore, e gli affida alcuni scatoloni di carte. E un compito, che Neil individuerà nel portare a termine un suo abbozzo di saggio su Giuliano l’Apostata, ultimo imperatore romano la cui sconfitta portò all’affermarsi del monoteismo a Roma (sconfitta che fu somma disgrazia secondo EF, il momento in cui la storia “ha preso la strada sbagliata”) ma anche nella scrittura di  una specie di memoir su di lei, “donna meravigliosa e morta” di cui Neil indagherà le numerose pieghe sconosciute. Ma si può capire una vita? E il fatto che sia di Giuliano l’Apostata (anzi, di Flavius Claudius Julianus) oppure di EF (anzi, di Elizabeth Finch) cambia qualcosa nei termini di questa possibilità? Raccontare è davvero capire? O la “raccontabilità” passa attraverso un conscio fraintendimento?


L’inception biografica barnesiana, affascinante come sempre, qui funziona meno bene del solito, la figura di EF non è così irresistibile e la sua enigmaticità non è, in fondo, così attraente. Ma non è questo il punto. Il punto è che, sebbene Neil lo neghi, questa è proprio la storia di Neil, di Neil che dovrebbe scrivere una storia che è difficile scrivere soprattutto specchiandola in un’altra che nessuno scriverà – forse le figlie di Neil, o le nipoti, sempre che qualcuno, prima o poi, entrando in possesso di uno scatolone che è, di fatto, una matrioska di impotenze, non deciderà di interrompere la catena del penoso e getterà tutto a mare. Perché ci sono cose in nostro potere e cose che non lo sono. E il bene supremo è comprendere, diceva EF, aggiungendo: sempre che uno sia interessato a una vita “da filosofo”. Ma alla maggior parte delle persone non interessa vivere una vita da filosofi. Alla maggior parte della gente interessa trasformare la propria vita in un racconto.
 

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