Sostenitori delle Brigate al Quds, ala armata del movimento palestinese Jihad islamica, in parata per le strade di Gaza City (Mahmoud Issa/Getty Images) 

Da Necaev a Nietzsche, dalla Russia a Gaza. Il catechismo del terrore

Michele Magno

Così il fanatismo religioso offre un alibi ai massacratori. Le radici nel nichilismo e la follia della palingenesi sociale

Il criminale, il soldato, il terrorista: tutti e tre infrangono il quinto comandamento (“Non uccidere”), ma con motivazioni assai difformi. Il primo può uccidere per un interesse economico, come in una rapina, o per un impulso emotivo, come la gelosia. Il secondo non solo può, ma deve uccidere per difendere se stesso e sconfiggere il nemico (in senso lato, ciò vale anche per gli agenti pubblici che detengono il monopolio legale della forza). Il terzo si trova in una posizione ambigua: per il potere statale, a cui si contrappone, è un criminale, ma dal criminale si differenzia perché uccide non per motivi personali, bensì per convincimenti politici o religiosi. Ciò spiega le difficoltà incontrate dai tentativi di formulare una univoca definizione giuridica del terrorismo. L’idea, ad esempio, che ai “movimenti di liberazione” sia permesso di utilizzare il terrorismo è stata difesa con fermezza all’Onu non solo dai paesi arabi, ma anche da altri paesi di quello che una volta si chiamava Terzo mondo. E, a un livello più primitivo e grottesco, ha avuto una certa fortuna la posizione teorizzata da Osama bin Laden in uno dei suoi famosi video: “Ci sono due tipi di terrore, uno buono e uno cattivo. Quello praticato da Al-Qaida è terrore buono”. E’ allora opportuno chiarire un punto. Il termine terrorismo deriva dal latino “terrere” (atterrire). E non riguarda i fini, ma i mezzi. L’attacco a una unità militare è guerriglia, un bomba in un ristorante è terrorismo. E’ evidente che sono azioni diverse, anche se compiute dagli stessi soggetti. Diverse politicamente e moralmente. 

 
Il terrorista agisce per lo più in nome di un credo per il quale è pronto a sacrificare la vita propria e altrui. Qui sorge una questione importante per la comprensione della sua mentalità. Per il terrorista che opera all’interno di un determinato ordinamento statuale l’omicidio, ai suoi occhi, è giustificato dalla nobiltà degli ideali che egli persegue. Inoltre, per lui è fondamentale la punizione dei rappresentanti del sistema che vuole colpire, anche se le vittime delle sue azioni possono essere degli innocenti, estranei all’obiettivo immediato dell’atto terroristico. Se il terrorista è un credente, violando il quinto comandamento egli sa di peccare. Se è ateo, e riconosce il divieto di uccidere come norma civile, l’omicidio per lui è una misura estrema giustificata da uno scopo più alto; e quindi considera la morte – sua e degli altri – un costo eventuale ma necessario, compresi  i  “danni umani” collaterali che può provocare. 

  
Diverso, molto diverso, è invece il caso del terrorista che non appartiene alla civiltà che vuole distruggere per affermare la propria, a suo giudizio superiore e, anzi, l’unica giusta. E’ il caso del terrorismo islamico, distinto dal terrorismo rivoluzionario ottocentesco e novecentesco, anche se formalmente non mancano elementi comuni come il cupo fanatismo e lo spirito totalitario. Andando al lontano passato, possiamo trovarne qualche traccia nella monarcomachia e nel tirannicidio del Cinque-Seicento, come nella setta degli Assassini dell’età medievale, paladina della sottomissione assoluta dei fedeli (e degli infedeli) all’autorità di Maometto. Hamas, Hezbollah, le formazioni jihadiste disseminate in Africa e Asia, sono tutte avamposti di un terrorismo “al servizio di Dio”; e i suoi adepti, spesso votati alla morte nel compimento dell’attentato, hanno la certezza di ricevere una cospicua ricompensa ultraterrena. Pertanto, il loro nemico non è un particolare regime, ma la civiltà occidentale in quanto tale. La strage efferata deve perciò scuotere l’opinione pubblica col suo orrendo effetto spettacolare. Gli ambienti affollati diventano quindi il suo bersaglio privilegiato. E la rete mediatica globalizzata offre condizioni straordinarie che mancavano al terrorismo tradizionale. La posta in gioco non è più questo o quel sistema di potere nazionale, ma tutto uno sviluppo storico (la modernità) e il suo pilastro (l’occidente).

 
Se nel mirino del terrorismo c’è l’intera civiltà occidentale, cristiana e laica, anche se si esita a definirla “guerra di religione”, siamo comunque di fronte a un conflitto condotto sì da una parte minoritaria – estremista e radicale – del mondo musulmano, ma la cui maggioranza resta spettatrice passiva, mentre solo una minoranza esigua lo depreca formalmente. Quando sente la “chiamata” – interiore o proveniente da un comando operativo – e si fa esplodere, il terrorista islamico vive il suo gesto suicida come una specie di martirio che sarà premiato lautamente nella vita ultraterrena. La fede religiosa dà a questo martire-assassino una determinazione che nessuna ideologia può dare. Si tratta di una disponibilità assoluta al sacrificio di se stesso che non può essere spiegata ricorrendo a fattori sociali o psicologici (povertà, disagio mentale). Non capiremmo un fenomeno che ha ragioni profonde di ordine spirituale e storiche: il risentimento di una civiltà ricca di  antichi splendori verso il Grande Satana (non solo) americano, superbo nel suo trionfo tecnologico, culturale e civile. A suo modo, il terrorismo che si richiama ad Allah ha una logica rigorosa, fondata su un fede inappellabile e sulla prospettiva di un islam universale: se “Dio è morto” in occidente, altrove è ben vivo. Sta qui l’aspetto più inquietante dei massacri dell’ultimo ventennio, quello che va dall’attacco alle Torri Gemelle (11 settembre 2001) alla mattanza nei villaggi israeliani del 7 ottobre scorso. Essi costituiscono una sfida a un concetto di umanità, il nostro, che ha certo i suoi lati oscuri ed è attraversato da interne tendenze disgregatrici, ma che legittimamente resiste ai vecchi e nuovi totalitarismi. 


Lasciamo questo tipo di terrorismo religioso e passiamo a quello occidentale, che ancora pochi anni fa infuriava in Italia e in Germania durante l’agonia dell’impero sovietico. Come ha scritto l’eminente slavista Vittorio Strada nel suo ultimo e magistrale saggio, questo terrorismo ha le sue radici nella Russia della seconda metà dell’Ottocento e dell’inizio del “secolo breve” (Il dovere di uccidere. Le radici storiche del terrorismo, Marsilio, 2018). “Noi abbiamo un unico immutabile piano negativo: quello della distruzione spietata”: l’autore di questa perentoria e spietata dichiarazione è Sergej Necaev. Nato nel 1847 nel governatorato di Vladimir da umile famiglia, dopo aver preso parte alle agitazioni studentesche di Pietroburgo, per sfuggire all’arresto ripara nel 1868 in Svizzera. Qui stabilisce stretti legami con Michail Bakunin. Tornato in Russia, fonda la società segreta “Giustizia popolare”. Processato e condannato a venti anni di carcere duro per una serie di omicidi, muore nel 1882. La sua opera più celebre, Catechismo del rivoluzionario, è il più importante manifesto del nichilismo russo, che spazia dalla descrizione dell’ascetica missione del rivoluzionario al rifiuto di tutti i valori della società contemporanea: “Nel profondo del suo essere, non a parole soltanto, ma negli atti, egli ha rotto ogni legame con l’ordine costituito e con tutto il mondo civile, con tutte le leggi, le convenienze, le convenzioni sociali e con la moralità di questo mondo. Il rivoluzionario è suo nemico implacabile e se continua a vivere in esso è solo per distruggerlo con più sicurezza” (il testo del Catechismo è riportato in Aleksandr Herzen, A un vecchio compagno, Shake Edizioni, 2019). 


Non si può negare – osserva Strada – l’incisività di un pamphlet assunto come modello da ogni futura organizzazione terroristica. E si può capire l’ammirazione di Lenin per le regole cospirative lì codificate. D’altra parte, è parimenti intuibile lo sgomento da esso suscitato non soltanto nelle alte sfere governative, ma anche nell’élite culturale dell’impero. Élite che vantava un intellettuale, Fëdor Dostoevskij, il quale in gioventù aveva partecipato a un movimento rivoluzionario che si ispirava al socialismo utopistico di Charles Fourier. E che poi, dopo un sofferto ripensamento, era giunto a una visione cristiana del mondo russo e europeo, indagando più a fondo di ogni altro gli abissi metafisici e le aberrazioni politiche del nuovo rivoluzionarismo nichilistico. 


Consideriamo ora ciò che Leo Strauss, quasi mezzo secolo dopo la pubblicazione del “ripugnante ma geniale romanzo I demoni ” (Lenin), dice “Sul nichilismo tedesco”, come recita il titolo di una conferenza da lui tenuta a New York nel 1941 (una sua traduzione in italiano è stata curata da Repubblica, 17 novembre 2000). Dopo aver affermato che “nichilismo potrebbe significare ‘velle nihil’, volere il niente, la distruzione di ogni cosa, anche di sé, e quindi sarebbe principalmente una volontà di autodistruzione”, Strauss si chiede: “In che misura si può dire che il nichilismo sia un fenomeno specificamente tedesco?”. La sua risposta è tagliente: “Quando capita di sentire, oggi, l’espressione ‘nichilismo tedesco’, molti tra noi pensano subito, istintivamente, al nazionalsocialismo. Tuttavia bisogna comprendere prima di tutto che il nazionalsocialismo è solo la forma più celebre del nichilismo tedesco – la sua forma più bassa, la più provinciale, la più incolta e la più disonorevole. E’ probabile che proprio la sua volgarità spieghi i suoi grandi, benché terribili, successi. […] In quanto tale il nichilismo ha radici più profonde della predicazione di Hitler. Il nostro secolo una volta è stato chiamato il secolo del bambino: in Germania esso s’è rivelato l’epoca dell’adolescente. Non c’è bisogno di dire che, in ogni caso, il naturale progresso dall’adolescenza alla vecchiaia non è stato mai interrotto da un pur breve periodo di maturità. Il declino del rispetto per l’età avanzata trovò la sua espressione più efficace nell’allusione sfrontata di Hitler alla morte imminente dell’anziano Presidente Hindenburg. […] Parlando in generale, prima della guerra mondiale l’ateismo era prerogativa della sinistra radicale, proprio come, storicamente, l’ateismo era stato collegato al materialismo filosofico. La filosofia tedesca era prevalentemente idealista e gli idealisti tedeschi erano teisti o panteisti. Schopenhauer fu, che io sappia, il primo filosofo tedesco non materialista e conservatore a professare apertamente l’ateismo. Ma la sua influenza diventa insignificante se paragonata a quella di Nietzsche. Nietzsche sostenne che il presupposto ateo non solo è conciliabile con una radicale politica antidemocratica, antisocialista, antipacifista, ma è anche indispensabile a essa: secondo lui, perfino il credo comunista è solo una forma secolarizzata di teismo, di fede nella Provvidenza. Non c’è alcun altro filosofo la cui influenza sul pensiero tedesco del dopoguerra sia comparabile a quella di Nietzsche, dell’ateo Nietzsche”. 


Secondo Strada, l’analisi di Strauss non è priva di punti di contatto con quella che un filosofo russo, Semën Frank, faceva nel 1909 del nichilismo del suo paese, mettendone in luce una sorta di etica e religiosità deviate. Certo, il nichilismo russo, e quella sua estrema filiazione che fu il terrorismo, poteva avere una giustificazione contingente, poiché lottava contro un potere dispotico e rivendicava l’emancipazione delle masse contadine, liberate con troppo ritardo dalla servitù della gleba grazie a una decisione di Alessandro II (1861),  tuttavia pur sempre oppresse e derelitte. Ma, al di là di questo obiettivo, i profeti del nichilismo terroristico vagheggiavano una società alternativa a quella capitalistica, un socialismo romantico, agrario, tradizionalista, volto a restaurare una mitica comunità incontaminata. E oggi, in cui invece la civiltà occidentale ha ormai “contaminato” quasi l’intero pianeta, non fortuitamente molte voci che la criticano aspramente si levano dal suo stesso seno.


La storia del terrorismo russo, il più longevo che si conosca, con le sue deboli luci e forti ombre prodromo del totalitarismo comunista, è in qualche misura la preistoria del terrorismo odierno. Coloro che si immolarono lanciando ordigni rudimentali contro lo zar e i suoi ministri hanno anticipato i terroristi suicidi che usano esplosivi ben più sofisticati contro le folle di Parigi e delle metropoli anglosassoni. Uno scontro che è ancora più vasto di quello – assai sanguinoso – che dilaniò la Russia, e che nei nostri giorni si accompagna a un movimento migratorio dal sud-est al nord-ovest del pianeta destinato a mutare la fisionomia della civiltà europea. Il terrorismo, come forma intermedia di distruzione di vite umane tra il crimine comune e la carneficina bellica, svolge un ruolo di grande rilievo nel conflitto tra civiltà rivali, senza dimenticare che il suo obiettivo resta quello di abbattere l’edificio della democrazia liberale e della società aperta in nome di un’utopia regressiva, che può essere armata sia da un dio che dai fantasmi della palingenesi sociale.