Una raccolta

Lettere (in cerca) d'amore, palcoscenico del proprio desiderio inappagato

Alfonso Berardinelli

D'Annunzio, Montale, Flaiano, Canetti, Kafka, Joyce, Apollinare. In un libro i carteggi di una ventina di scrittori del ’900 che svela un segreto: si dice di amare perché si vuole essere amati

Ho spesso rimpianto, soprattutto con il passare degli anni, di non aver tenuto regolarmente un diario nel corso della vita. Me lo rileggerei volentieri, non dico per capire, ma per sentire e immaginare le singole giornate vissute. A volte ho provato senza successo, sia per incostanza che per noia. Salvo rare eccezioni (giorni memorabili) l’atto di scrivere un diario l’ho sempre trovato noioso. L’io davanti a sé stesso non è molto interessante, anche se interessanti possono essere certe cose pensate o compiute in certe precise circostanze e a proposito di ricorrenti o inattesi problemi personali: per esempio quando ci si accorge all’improvviso di non sopportare più qualcosa che si amava o si accettava passivamente.


Per tenere volentieri un diario credo che sia necessario trovare lo stile più adatto a noi stessi. Ma l’invenzione di uno stile richiede la presenza di un pubblico reale o ipotetico. Infatti, per quanto mi riguarda, il modo migliore di tenere un diario sarebbe stato scrivere lettere ad amici lontani, meglio se amiche. Le donne, mi pare, amano l’intimità e le confessioni più degli uomini. Scrivendo lettere a qualcuno si cerca poi di non annoiare, per amor proprio oltre che per rispetto degli altri.


C’è però un tipo di lettera nel quale si perde più facilmente il senso della misura e si manipola, si recita, si arriva persino a falsificare, molto o poco, la stessa sincerità: succede con la cosiddetta lettera d’amore, in cui spesso c’è meno amore di quello che si dichiara.
Devo all’imponente volume Lettere d’amore (728 pp., 59 euro), appena pubblicato dal Saggiatore con prefazione competente di Massimo Onofri, le considerazioni di cui sopra. E’ un volume che offre al lettore i carteggi di una ventina di scrittori del Novecento, probabilmente l’ultimo secolo della storia umana nel quale la lettera d’amore è stata praticata con passione e impegno. Eppure, per qualche motivo, è proprio la presenza della passione d’amore a essere in sé poco interessante. Il lettore è sempre attratto voyeuristicamente dall’intimità che domina i carteggi amorosi, salvo restare sorpresi da una certa scettica incredulità. In questo caso si tratta di grandi e importanti scrittori. E tuttavia succede che anche le personalità e le intelligenze più originali e penetranti mostrino i propri limiti, le proprie debolezze, il proprio egoismo mascherato da conclamato altruismo. La lettera d’amore può mettere in scena la più spudorata sincerità, solo che fa questo per raggiungere uno scopo: si dice di amare perché si vuole essere amati. E’ per ottenere questo che si scrive. Si dichiara enfaticamente il proprio amore per ottenere amore in uguale misura, se non in misura maggiore. Si dà per riscuotere.


Il primo premio per meriti di elaborazione retorica va dato a Gabriele D’Annunzio, capace di iniziare una lettera, per esempio quella del 10 luglio 1883, con un periodo di undici righe nelle quali, con perfetta architettura e iterazione sintattica, si butta dentro di tutto (ometto le virgolette): dolore, passione, terribilità tragica, gridi sovrumani di angoscia, desiderio, carezze, singhiozzi, lacrime, adorazione di tutta la vita, ansia interiore...


Al polo opposto ci sono la scherzosa leggerezza di Apollinaire, la semifollia di Elias Canetti, la dubbiosa moderazione di Paul Celan, l’onesta naturale schiettezza di Colette, il toccante pudore di Ennio Flaiano, le tormentose gelosie di Joyce, le paure dichiarate e le cautelose angosce di Kafka, la dolente umiltà di Strindberg, l’umorismo autodifensivo di Montale innamorato settantenne, la lucidità analitica di una narratrice come Edith Wharton...


Un bel campionario. L’amore è sempre al primo posto. Ma è difficile non chiedersi: l’amore dichiarato è amore? Una volta nominato sembra che l’amore perda consistenza. Reale e credibile è piuttosto il desiderio. Si scrive una lettera d’amore per “intrattenere” il proprio desiderio inappagato e superare a parole il vuoto della lontananza. Alla fine, comunque, le cose più interessanti delle lettere d’amore arrivano quando non si parla di amore. E’ quando l’innamorato parla d’altro che finalmente si tocca terra, la terra della vita vissuta dove l’amore epistolare si mostrerà vero o falso. Si legge in una poesia di Anna Maria Carpi: “Amore amore / e poi non lo sopporti”.