l'intervista

Daniel Pennac: "Le nostre società basate sul trionfo dell'individualismo e la ricerca del capro espiatorio"

Giuseppe Fantasia

Lo scrittore francese ha ricevuto il premio Chandler alla 33esima edizione del Noir in Festival a Milano

In una piovosa e illuminata (da tante luci, visto il Natale in arrivo) Milano, arriva anche Daniel Pennac, pronto a ricevere il Premio Chandler alla 33esima edizione del Noir in Festival. È molto a suo agio e come tutte le altre volte che lo abbiamo incontrato, riesce sempre, come pochi, a trasmettere una calma zen che incuriosisce e rilassa allo stesso tempo. Il suo nuovo romanzo, Capolinea Malaussène, uscito a marzo dello scorso anno per Feltrinelli nella traduzione di Yasmina Melaouah, continua a essere un successo, ed è l’ultimo dedicato al suo personaggio più famoso, Benjamin Malausène, un’icona della letteratura francese contemporanea, e alla sua sgangherata famiglia. “Sì, è davvero l’ultimo – assicura al Foglio– ma come sa, gli scrittori sono bugiardi” (ride, ndr). “Sono diventato scrittore, perché amavo mentire. Un giorno, un mio professore mi invitò a smettere di dire bugie e di usare la mia immaginazione per scrivere un romanzo, ed è così che ho fatto”.

Nato a Casablanca nel 1944, già insegnante di lettere in un liceo parigino, dopo un'infanzia vissuta in giro per il mondo, tra l'Africa, l'Europa e l'Asia, Pennac ha deciso di vivere a Parigi nel quartiere di Belleville dal 1969 e se è Belleville si è gentrificato ed è divenuto famoso in tutto il mondo, lo si deve a lui. È proprio lì che ha ambientato i suoi fortunati romanzi, dal primo - Il paradiso degli orchi (1985) - a La fata carabina, La prosivendola, Signor Malaussène, La passione secondo Thérèse e Ultime notizie dalla famiglia, tutti  incentrati sul personaggio di Benjamin Malaussène, di professione capro espiatorio, e relativa famiglia. Leggendoli, il lettore si abitua piano piano a quel disordine fatto di persone, luoghi, colpi di scena, ironia, gangster senza scrupoli e imbrogli di ogni genere, ma poi diventa facile orientarsi. In Capolinea Malaussène, poi, “dove non si sa bene cosa racconto” - ironizza lui, fissandoci da dietro un paio di occhiali con una montatura nera e tonda - sarà in realtà ancora più facile, perché Pennac ha pensato bene di aggiungere un albero genealogico, necessario per addentrarsi al meglio in quel groviglio di storie ed emozioni che può essere un giallo come una spy story. Quell’albero genealogico ce lo ha mostrato ieri sera, accanto a quello della famiglia di Alessandro Manzoni, ben esposto nella casa a pochi passi dal Duomo e dal Teatro alla Scala, durante una serata per lui molto speciale, perché era il suo compleanno, festeggiato con i suoi amici del Noir Festival (i direttori Giorgio Gosetti, Marina Fabbri e Antonio Canova dell’Università Iulm) e un numeroso pubblico di affezionati.

 

Davanti a una torta con le candeline si fa sempre un bilancio: il suo qual è?

“A Parigi all’Académie Française e adesso qui, mi hanno premiato ‘per la mia opera’. La cosa mi fa molto piacere, è ovvio. In teoria sono premi che dovrebbero essere consegnati con delle bare (ride, ndr), ma fortunatamente la vita va avanti”.

 

Cosa ha imparato in questi ultimi anni complicati da più punti di vista tra pandemia, guerre e disastri ecologici?

“Oggi come mai assistiamo al trionfo dell’individualismo che politicamente si è rivelato attraverso le elezioni di Trump, di Netanyahu, di Bolsonaro, della Meloni da voi e di molti altri. Sono tutte figure di capi contemporanei che mi sembrano rappresentare proprio il trionfo di quell’individualismo. Tutti hanno stravolto un sistema e il loro popolo da più punti di vista dove sono le rivalità a trionfare. Quando la stessa rivalità diviene eccessiva e quando insorgono ragioni di paura e insicurezza, si diffonde un sentimento di odio a tutta la società che tende a convergere minacciosamente su una sola vittima, che è quella che René Girard – colui che mi ha fatto venire l’idea del mio primo romanzo dedicato ai Malaussène - chiama capro espiatorio. Si tratta di un individuo o di un animale che deve pagare al posto di altri, non perché sia particolarmente colpevole, ma perché la comunità non può trovare accordo se non unendosi contro qualcuno o qualcosa. Ognuno, per convinzioni personali, per fede o per altro, sceglie un suo colpevole, un capro espiatorio appunto, e non è quindi un caso se la nostra sia divenuta una società dove riescono a prendere potere persone che sono l’esempio perfetto dell’individualismo all’ennesima potenza”.

 

A risentirne, in primo luogo, è il senso della collettività.

“Certamente, ma è individualizzata da una sorta di iper potere della società mercantile. Sono scioccato da quello che vivo e che viviamo ogni giorno. L’altro giorno, ad esempio, al mercato, ho visto una donna che portava un passeggino. Dentro c’era un bambino con un tablet in mano, avrà avuto al massimo quattro anni, come si può? Quando ho iniziato a scrivere, quarant’anni fa, il mondo era diviso tra l’Est e l’Ovest, la Cina era come una città di provincia, ma i bambini non erano così, non erano clienti di una società dei consumi, lo sono diventati solo in seguito. Oggi sono al centro di un clientelismo molto dannoso”.

 

Come si potrà cambiare o migliorare in tal senso?

“Intanto occorre che gli adulti facciano gli adulti e che i genitori facciano i genitori. I bambini non leggono, si lamentano proprio i genitori, ma voi - gli chiedo, lo fate? Quello che li preoccupa è che non finiranno le scuole, mentre non si preoccupano affatto di sapere se leggeranno per il piacere della letteratura. Questa commercializzazione generalizzata ha annullato la nozione di maturità. Abbiamo invece bisogno di una maturità calma e attenta verso i giovani. I bambini hanno bisogno oggi più che mai degli adulti, ma il problema è che gli adulti non esistono più perché sono infantilizzati dall’iper consumo. Internet ha aiutato e aiuta, ma c’è un’ossessione per tutto ciò che è digitale. Occorre stare attenti”.

 

Tra qualche anno, forse, potrebbe esserci anche un Daniel Pennac elettronico che scriverà al posto suo: la cosa la infastidisce?

“Il problema dell’Intelligenza Artificiale è lo stesso che si pone in occasione di ogni evoluzione scientifica o tecnologica. Dipenderà da quello che se ne farà, tutto qua. Io, finché potrò, continuerò a scrivere, perché scrivere fa parte di me, del mio quotidiano, oltre a mille altri interessi. È un’immersione nella lingua. Il genere – romanzo o saggio che sia – viene per me sempre dopo”.

 

Il dopo è ciò che resta quando uno non ci sarà più e il problema – come ha scritto la sua amica e collega Maylis de Kerangal, è “Riparare i viventi”, che è poi il titolo del suo primo libro che avete presentato insieme anni fa a Roma.  

“Ha ragione, ma sa una cosa? Nella mia grande biblioteca a casa mia, a Parigi, conservo tutte le foto dei miei amici morti, degli amici veri, che hanno contribuito alla felicità della mia vita. Mi dico che se loro hanno reso la mia vita così felice, probabilmente renderanno la mia morte meno stupida”.

 

Ha paura?

“No, perché mi ripeto stesso che forse li rivedrò. Non val la pena crederci per sperarlo. Ci si può non credere, ma sperarlo comunque. Ed è bello così”.

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