Il celebre ritratto di Giacomo Leopardi realizzato da S. Ferrazzi (Casa Leopardi, Recanati, 1820 circa) 

poesia

Il senso di Leopardi per la punteggiatura

Stefano Picciano

“Non v’è pure una virgola ch’io non abbia pesata e ripesata più volte”, scriveva il poeta a Pietro Brighenti, nel corso dei preparativi per la realizzazione del volume deo Canti. Una scoperta antiquaria nel giorno del duecentesimo anniversario del canto “Alla sua Donna”.

Accade, nel consueto spigolare in rete tra librerie antiquarie, di trovare libri di ineguagliabile valore. Mi imbatto così in un preziosissimo volume, prima edizione dei Canti di Giacomo Leopardi, in vendita all’abbacinante prezzo di dodicimila euro, che egli volle intitolare Canzoni per lo stampatore Nobili, a Bologna, nel 1824. E’ il nucleo originario dei componimenti – solamente dieci, tre in ristampa e sette inediti – che sarebbero poi confluiti nella più ampia edizione fiorentina del 1831, comprendente ventitré opere e, infine, in quella napoletana del 1835.

Attardatomi un poco nell’ammirazione per il suo stato di conservazione, mi sovviene il pensiero che ricorra in queste settimane – e una rapida verifica, poi, lo conferma – l’anniversario di uno dei componimenti più celebri, il canto intitolato Alla sua Donna. L’autore lo scrisse, in soli sei giorni, proprio nel settembre del 1823. Era da poco rientrato nella romita casa di Recanati dopo un viaggio a Roma, quando mise sulla carta questo capolavoro rivolto non tanto a una donna quanto, si direbbe, alla bellezza in sé, di cui Leopardi aveva trovato nell’esistenza solo sparute tracce (“forse tu l’innocente / secol beasti che dall’oro ha nome”) e che, nonostante l’iniziale illusione (“te viatrice in questo arido suolo / io mi pensai”) sapeva di non poter trovare tutta intera (“Viva mirarti omai / nulla spene m’avanza”), perché “non è cosa in terra / che ti somigli”. Quale l’oggetto di una tanto ardente nostalgia? Curiosamente scopro che in quegli stessi giorni, nell’ambito di una dissertazione sul tema religioso, egli riflette sul tema della felicità scrivendo: “La felicità è la perfezione e il fine dell’esistenza. Noi desideriamo di esser felici perocchè esistiamo” (Zibaldone 3498) e torna alla mente, in proposito, l’intuizione che in seguito avrebbe appuntato nei Pensieri: “Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena (…) e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità (…) pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga nella natura umana” (LXVIII).

Le lettere con Pietro Brighenti, dedicate ai preparativi per la realizzazione del volume, ci permettono di conoscere le indicazioni precisissime che il poeta rivolge all’amico (“Se avete avuto pazienza di leggere tutte queste ciarle (…) siete un grand’uomo, e vi stimo più che per lo passato”): nella lettera del 5 dicembre, in particolare, chiede di raccomandare allo stampatore che le strofe delle Canzoni si collochino una per pagina, che “non si mettano nel margine superiore delle strofe né lineette né ghiribizzi né altri ornamenti, che son tutte cose di cattivo gusto. (…) Neanche si metta nessun ornamento nel frontespizio”; inoltre – meraviglioso – richiede massima attenzione per la correzione delle prove di stampa, specie per quanto riguarda la punteggiatura (“nella quale io soglio essere sofistichissimo”), in quanto – scrive – “non v’è pure una virgola ch’io non abbia pesata e ripesata più volte”. Leopardi domanda di poter occuparsi in prima persona della revisione: “Io avrei molto caro e vi sarei molto tenuto, che prima di tirare i fogli, me ne faceste spedire di mano in mano per la posta le ultime prove (…). Io darei loro l’ultima correzione”.

Ne vennero stampati cinquecento esemplari, cinquanta dei quali da destinarsi all’autore, come egli conferma nella stessa lettera: “Accetto le condizioni che mi proponete per parte dello stampatore (…). Vorrei che mi procuraste da lui questo piccolo vantaggio, che due de’ 50 esemplari che mi promette, fossero stampati in ottavo più grande degli altri, e in carta velina”. Ma l’aspetto forse più degno di nota è il fatto che, nel ripercorrere le successive edizioni, emerge l’evidenza di una ininterrotta tensione al perfezionamento: Leopardi torna continuamente su quanto ha scritto e continua a formulare correzioni e nuove ipotesi, come dimostrano chiaramente quei gruppi di alternative posti a margine della pagina, o tra parentesi, nei suoi manoscritti, oppure – persino dopo la stampa – negli esemplari da lui posseduti. Una ricerca mai del tutto soddisfatta, documentata da quelle straordinarie varianti che l’autore non solo annota nella prima stesura, ma copia anche nelle successive riscritture, quasi non volesse rifiutarle del tutto. Come nel desiderio di custodirle – ancorché non scelte – nella loro meravigliosa possibilità. 

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