"Love is great" di Damien Hirst

La riflessione

Pasqua, o la grazia definitiva per chi sconta la pena di vivere. Cioè tutti

Pierluigi Banna

Da quando Cristo è risorto, non c’è atto in questo mondo che possa decretare un giudizio definitivo sulla vita di nessuno. Come le farfalle di Hirst cerchiamo in alto, ma “non stiamo bene”

“Non stiamo bene, ci è sempre più complicato vivere, come se gestire la vita diventasse sempre più difficile” (Jón Kalman Stefánsson). Parole lapidarie, che alzano il sipario su una condizione di pesantezza e noia che è sempre più diffusa e condivisa. Non la si può ormai scansare, rubricandola tra le singole eccezioni del disagio giovanile o del disturbo psichico. Abbiamo possibilità di studiare, viaggiare, usare tecnologie, possiamo reperire informazioni su ogni argomento, ma ci sentiamo confusi sul nostro futuro, vuoti di parole nostre, pieni di angosciato silenzio per la paura di non farcela. Non convince del tutto quell’antica sapienza per cui la virtù dell’uomo consisterebbe nella capacità di sapersi accontentare, sapendo rinunciare alla propria pretesa di essere originali a tutti i costi. Per fortuna (o purtroppo, per qualcuno), c’è qualcosa che ancora ostinatamente ci attacca al blu del cielo, come le farfalle di Love is great di Damien Hirst. Sono quasi “costrette” ad aspirare a cose dannatamente alte, troppo alte, per le loro forze. Aspirazione insoddisfatta di questa terra, che di tutto sente imperterrita la povertà: non è più scontato che questa aspirazione sia il segno della grandezza dell’essere umano. Per molti, costituisce la “condanna” di questa pena che è il vivere. Proprio a questa “umanità sfinita per la sua debolezza mortale” (Liturgia), viene annunciata dai cristiani, anche quest’anno, la grazia propria di Gesù di Nazareth. Lui, da condannato, libera da ogni forma di prigionia.

 

A te, che, come Giuda, hai tradito e infranto il rapporto più caro della vita, chiama ancora e nuovamente “amico”. Tu, che, come i suoi crocifissori, ti sei scoperto complice silenzioso dei complotti dei potenti, vieni abbracciato con una simpatia sconfinata che lascia ancora un margine alla tua libertà: “Perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Tu che, come il buon ladrone, agli occhi del mondo sei un fallito senza appello, condannato pubblicamente dalla legge, puoi ancora ricevere il più bell’invito della vita: “Oggi sarai con me in Paradiso”. Questa tenace affermazione della bontà originaria del mio, del tuo essere, della positività ultima di ogni essere a questo mondo, è possibile a Cristo perché egli ha avuto questo sguardo anzitutto su di sé. Non si è lasciato misurare dagli occhi di chi lo giudicava, lo abbandonava o lo crocifiggeva. Non ha aggiunto condanna a condanna, ma ha caricato su di sé il dolore di tutti, consegnandosi nelle mani del Padre. Ha così percorso il tunnel della condanna e al fondo del buio di morte ha ritrovato la luce dell’abbraccio del Padre che gli ha dato nuova vita, la vita nello Spirito.

 

Da quando Cristo è risorto, non c’è atto in questo mondo che possa decretare un giudizio definitivo sulla vita di nessuno. Senza discriminazione, il condannato a morte e l’aguzzino, l’amico rinnegato e il traditore, la vittima del sistema e il governante di turno, insomma, tutti coloro che si lasciano coinvolgere ancora oggi dalla vita contemporanea del Risorto, possono iniziare un nuovo cammino che cambia il modo di guardare sé e il volto dell’altro, generando una amicizia nuova, indistruttibile. Lo si è visto qualche giorno fa nell’incontro commosso tra i genitori della piccola Angelica, morta a cinque anni, e Papa Francesco all’uscita dell’ospedale. Quell’abbraccio e quella preghiera non sono la fine, ma il segno di una vita nuova, in questo mondo. Persino la colpa che sa già di morte può essere l’occasione per ripartire. Scriveva s. Ambrogio: “Non mi glorierò perché sono stato d’aiuto a qualcuno, né perché qualcuno mi è stato d’aiuto, ma perché Cristo… ha debellato la morte. E’ più produttiva la colpa dell’innocenza. L’innocenza mi aveva reso arrogante, la colpa mi ha reso umile! Il senso di condanna per questa vita cede il passo allo stupore e alla tenerezza “di questa oggettività che è il mio soggetto, la meraviglia di questa cosa che chiamo ‘io’” (Giussani). Dalla pena del vivere allo stupore di esserci perché immortalmente amati: questa è la grazia definitiva della Pasqua che spezza per sempre ogni forma di solitudine.

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