Una scena di "C'era una volta a Hollywood"

Le virtù della parola

Oggi che nessuno conversa più, ci salvano il cinema e le serie televisive

Mariarosa Mancuso

In “Talking Cure”, Paula Cohen traccia un quadro brillante dell'arte preziosa del dialogo, fra Molière (insuperabile) e Shakespeare (più bravo nei monologhi): sempre in rapporto al grande schermo. All'appello manca forse Tarantino

“Un piacere dilettevole e innocente, adatto a ogni età e condizione, alla portata di tutti”, diceva Jonathan Swift della conversazione. Peccato, aggiungeva, sia trascurato e strapazzato in tutti i modi. L’uomo amava la satira, da qui la proposta di vendere i neonati dei miserabili irlandesi come manicaretto per i ricchi inglesi (era il 1729, i bambini in generale e i bambini poveri in particolare non erano una risorsa scarsa). Alla conversazione tiene, e fornisce una guida: “Non parlare troppo, non parlare sempre di sé, non essere pedante, non sforzarsi di sembrare brillante, non svicolare dall’argomento, non dare battute pesanti” (e i talk-show non erano stati ancora inventati).

 

Oggi che nessuno conversa più, ci salvano il cinema e le serie televisive (il nome resta, come resta l’icona del dischetto per salvare i testi sul computer, anche se tra un po’ le tv spariranno). Stiamo a guardare gente che articola frasi e conversa come noi non facciamo più. E’ la tesi di Paula Cohen, in un libro appena uscito e intitolato “Talking Cure”, ovvero “la cura attraverso la parola”, diceva Sigmund Freud della psicoanalisi. Lo annuncia un estratto sul Wall Street Journal. L’assaggio parte da “Una mamma per amica”, la serie di Amy Sherman-Palladino in onda dal 2000 al 2016. “Perché non parliamo anche noi come Lorelei e Rory?”, chiese Paula Cohen alla figlia quindicenne, fan della serie. La fanciulla girò i tacchi e se ne andò. Come a dire: i dialoghi brillanti si ascoltano, mica dobbiamo provare a rifarli in casa. Amy Sherman-Paladino non ha cambiato stile. I suoi dialoghi, e in questo caso anche i monologhi, fanno risplendere Mrs. Maisel, casalinga che invece di disperarsi per il marito fedifrago usa il materiale per una carriera da stand up comedian. Tutto è materiale, diceva Nora Ephron, abbandonata dal marito quand’era incinta (l’amante era la sua migliore amica, altro che monologo: ne ricavò un film intero: “Affari di cuore”).

 

I francesi lo fanno meglio, sostiene Paula Cohen. Intende: conversare e mettere in scena le conversazioni. “My Dinner With André” di Louis Malle, o “La mia notte con Maud” di Eric Rohmer sono i titoli che vengono in mente, odiati o amati a seconda dei gusti. Va detto comunque che le chiacchiere, anche pseudo-filosofiche, son meglio dell’effetto “vedere la pittura asciugare” – così disse Gene Hackman in “Bersaglio di notte”, a chi voleva portarlo a vedere un film francese. D’ora in poi, anche “veder impanare le cotolette”, come succede nel film della belga Chantal Akerman che ha sbaragliato tutti i rivali nella lista del British Film Institute. Molière è insuperabile, nella scrittura delle conversazioni. Shakespeare era più forte nei soliloqui, sostiene Paula Cohen. Il libro è suo, ma ci permettiamo di far notare che lo scambio di amorose battute tra Giulietta e Romeo funziona anche paracadutato in una piscina di Verona Beach, anno 1996. Serve il contributo di Baz Lurhmann, che aggiunge lo splendore di Claire Danes e Leonardo DiCaprio. “Ti restituisco il bacio che mi hai dato / Adesso sono io che te ne devo uno” e via così, fino a “Baci come un dio” (nell’originale: “Baci secondo le regole”).

 

L’estratto sul Wall Street Journal dimentica Quentin Tarantino. Grande regista e ancor prima grande scrittore. Superlativo nelle conversazioni. All’inizio delle “Iene”, quando si parla di mance. In “Django Unchained”, quando i membri del Ku Klux Klan litigano perché i cappucci sono tagliati male, non vedono nulla dai buchi per gli occhi. L’altroieri ha compiuto 60 anni, la Nave di Teseo ha pubblicato l’imperdibile “Cinema Speculation”. Primo capitolo: “I grandi film del piccolo Q”.

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