La recensione

Broch, Esch o l'anarchia

Luigi Azzariti-Fumaroli

Il secondo volume della trilogia dello scrittore asburgico pubblicata oggi da Adelphi. Un manifesto ultimamente incongruo che induce, pur dinanzi alla «disgregazione dei valori», a credere ancora nell’uomo.

Nonostante Antonioni, de “I sonnambuli”, avesse fatto la lettura d’elezione di Lidia, la solitaria ragazza impersonata ne “La Notte” (1961) da Monica Vitti, il romanzo dello scrittore viennese è stato per lo più letto, e non solo in Italia, con indifferenza benevola o con scoraggiato rispetto. Tradotta dapprima presso Einaudi da Carla Bovero, nel 1960, ed ora da Ada Vigliani per Adelphi, che dopo il primo volume, “Pasenow o il romanticimo” apparso nel 2020, ne ha ora pubblicato il secondo, “Esch o l’anarchia” (pp. 274, euro 20), e si accinge prossimamente a completare il trittico con “Huguenau o il realismo”, l’opera del più defilato dei grandi scrittori del tramonto del mito asburgico è stata considerata sì il paradigma, non diversamente da “L’uomo senza qualità” di Musil, di un mondo scardinato nelle proprie gerarchie, ma un manifesto ultimamente incongruo, perché ancora confidente in un ideale morale che induce, pur dinanzi alla «disgregazione dei valori», a credere ancora nell’uomo.

 

Proprio questo sentimento di speranza, che giunge al termine della raffigurazione di una serie di personaggi che – ha osservato Claudio Magris – vivono in un auto-ottundimento col quale nascondono il proprio vuoto, ha spinto a considerare “I sonnambuli” un romanzo incompiuto, e non solo per ragioni formali, a cominciare dall’essere, i diversi elementi della narrazione, giustapposti e non fusi in una vera unità “polifonica”, ma perché Broch non è sembrato sufficientemente audace nel rinunciare all’unità, in un tempo nel quale – com’egli stesso rileva in un saggio del 1936 –  il pensiero ha posto fine ad ogni pretesa di universalità. L’ideale di Broch è sembrato quello di poter esprimere, «ad un tempo e come in un’unica frase, tutti i moti contrari, di mantenerli nella loro opposizione», pur mirando a serbare intatta «l’immensità del tutto». Di qui pure la smisurata lunghezza delle sue frasi, che sembrano ogni volta voler esaurire il mondo, passare – ha scritto Maurice Blanchot – «tutti i livelli dell’esperienza, conciliando tutto quanto si contrasta: crudeltà e bontà, vita e morte, istante ed eternità», ma senza riuscire mai a finire, perché il riversarsi continuo del pro e del contro determina sempre nuove ripetizioni.

 

In “Esch o l’anarchia” l’aspirazione all’unità assume i tratti dell’attrazione sessuale, quella che il protagonista nutre verso mamma Hentjen, figura – notò Ladislao Mittner – «ridicola quanto si vuole e a tratti ripugnante, ma sempre d’una grandiosa compattezza». Esch è però destinato a restare «estraneo nel suo amore»: nel mondo reale l’adempimento fallisce sempre. Ne fornisce prova la stessa scena dell’amplesso, nella quale la signora Hentjen preme la bocca contro quella di Esch, «che la stava cercando come il muso di un animale contro una lastra di vetro», termini, questi ultimi, che restituiscono metaforicamente la situazione esistenziale di Esch, il quale rimane perfino nell’abbraccio separato dalla propria amante, incapace di impossessarsi della sua anima.

 

Non a caso, è questo, del trittico brochiano, il volume che, in “Estinzione”,  Thomas Bernhard, per bocca del suo alter-ego Franz-Josef Murau, raccomanda di leggere al suo pupillo Gambetti, quasi che qui più che altrove possa cogliersi il senso di quell’ineluttabile fallimento che sembra essere l’unica esperienza possibile là dove – secondo quanto si legge in Teoria del romanzo di György Lukács –  «sono soltanto pure speranze ad annunciare l’avvento del nuovo: segni di un avvenire i quali sono ancora così deboli da poter essere schiacciati a capriccio, per gioco, dalla sterile forza di ciò che meramente è».

 

Ma mentre i personaggi di Bernhard, ossessionati dal perseguimento d’una inattingibile perfezione, sono inclini a fuggire davanti al fallimento e alla nullificazione, quelli di Broch si inabissano nel nulla, senza opporvi altra resistenza che quella offerta dall’attaccamento a valori atavici, ormai frustri come l’uniforme che Pasenow serba quale ultimo vestigio d’un mondo di ieri irrimediabilmente perduto, o assorbendone, come Huguenau, la carica distruttiva, non arretrando neppure di fronte al crimine, o ancora come Esch, la cui ribellione verso l’ordine costituito si esaurisce in un delirio onirico in cui ogni cosa appare un «sostituto simbolico». In tal senso, più che rappresentare, secondo quanto ha suggerito Milan Kundera, il fanatismo d’un’epoca senza Dio, Esch sembra essere soprattutto emblema di quella «cultura stanca» di cui Broch non ha mai mancato di farsi diagnosta, fiutando la «nudità» del suo elemento aerino. In quest’ultimo – insegnavano già Platone e gli stoici – tutto scorre sempre come in un continuum elastico, quasi che l’intero cosmo, respirando, rendesse possibile l’immaginazione dell’aria, e questa, a sua volta, rendesse possibile il mondo percepibile: «come respiriamo aria e parliamo aria, così – ha affermato James Hillman – ci bagnamo nella sua immaginazione elementale, necessariamente illuminata, risonante, ascendente».

 

Ed è forse nella ricerca d’una ancora non compromessa «immaginazione dell’aria» che Broch si cimenta quando cerca di scomporre il proprio respiro e quello dei propri personaggi in quei suoni, appena percepibili e rauchi, che Elias Canetti ha chiamato la sua «punteggiatura respiratoria», capace d’accordare la sua Opera ad «un’asciutta rapidità, ad una meccanica febbre, ad una sterile precipitazione», ma anche ad «una felicità senza speranza», come vien detto nel colloquio “Paura” di Hofmannsthal e Broch ripete, avvertendo però che non vi è più spazio «per un’epica nella quale lo ieri, pur sperando nel domani, permane nella felicità dell’oggi», ma soltanto per un’epica – si legge ne “La morte di Virgilio” –  votata all’«immensamente nuovo»: la quale, scardinando ogni limite, potrebbe prodursi e annunciarsi, oppure, con passo leggerissimo passare oltre, senza più «poter risanare nella conoscenza».