(foto Ap)

Nuvole su Mickey

Sfide tra miliardari e guerre culturali funestano i cento anni della Disney

Marco Bardazzi

Nel centenario dalla nascita si addensano nubi sulla società californiana. Ma occhio a non sottovalutare gli ultimi successi di un colosso da 200 miliardi di dollari

Gestire le grandi famiglie allargate non è facile. Figuriamoci gestire una mega famiglia come quella della Disney, dove convivono personaggi delle fiabe, eroi della Marvel e avventurieri di Guerre Stellari. Non ci si annoia mai, l’ambiente è sempre creativo e può succedere di tutto. Ma quando in una casa del genere cominciano a nascere alleanze tra Iron Man e Darth Vader per far fuori Topolino, significa che la situazione è un po’ più fuori controllo del solito.

 

E’ l’anno del centenario della Disney, le celebrazioni sono partite in grande stile in America e sbarcheranno presto in Europa. Ma nel “Happiest Place on Earth”, come è conosciuta da sempre Disneyland, scarseggia la felicità e abbondano le sfide. Il 2022 è stato un anno complicatissimo, con il titolo in Borsa che ha dimezzato il proprio valore dai 200 dollari ad azione dell’anno prima e con il cambio dell’amministratore delegato a novembre: fuori Bob Chapek, l’ex re dei parchi tematici che non ha trovato il modo di far crescere la piattaforma di streaming Disney+, dentro di nuovo al comando Robert Iger, richiamato dalla pensione a 71 anni dopo che aveva già guidato la società per 15 anni. Il 2023 è partito in salita, con altre battaglie nella guerra culturale che oppone la casa di Topolino a Ron DeSantis, governatore della Florida e probabile candidato anti-Trump alla Casa Bianca e con la decisione di lanciare una dolorosa campagna di tagli: investimenti per 5,5 miliardi di dollari cancellati e ben settemila licenziamenti, il 3 per cento dell’intera forza lavoro. 

 

Ma la vera novità è stata la battaglia in casa, pianificata nel regno degli Avengers e mirata a conquistare l’eterno Topolino e i castelli delle principesse disneyane. Il protagonista, quantomeno quello che ha agito allo scoperto, in realtà faceva pensare a un attacco dall’esterno del gruppo. Si tratta di Nelson Peltz, ottuagenario investitore attivista che nei mesi scorsi ha comprato quasi un miliardo di dollari di azioni Disney e ha chiesto un posto in consiglio d’amministrazione, annunciando di voler far cambiare corso alla multinazionale dell’intrattenimento. Peltz è una figura ben nota a Wall Street fin dagli anni Ottanta, con la reputazione di un cattivo alla Darth Vader, anche se per lui i paragoni con i personaggi immaginari si sono sprecati sulla stampa americana. Il più suggestivo lo ha trovato il Wall Street Journal, secondo il quale il vero cattivo d’animazione a cui assomiglia è Jafar, il malvagio gran visir nemico di Aladino.

 

Dopo aver minacciato fuoco e fiamme per settimane, nei giorni scorsi Peltz si è improvvisamente fermato e di fronte al piano di tagli di Iger ha annunciato che la strada è quella giusta e la battaglia è finita. Almeno per ora, perché gli restano in tasca un miliardo di azioni che nel frattempo hanno ricominciato ad acquistare valore. Ma l’attenzione si è ben presto spostata da lui al suo probabile ispiratore. E qui la vicenda diventa intrigante, perché spunta fuori un altro personaggio, stavolta targato Marvel, che è un mix tra il Tony Stark di Iron Man e Thanos (il cattivo più cattivo dell’universo): Isaac “Ike” Perlmutter, il presidente di Marvel Entertainment.

All’ottantenne Perlmutter – quella in casa Disney è una battaglia della terza età, paradossalmente combattuta per il controllo degli eroi dei ragazzi – qualcuno dovrebbe dedicare un libro, se riuscisse a trovare il modo di scriverlo. Il misterioso e schivo papà dei supereroi cinematografici non ha mai concesso un’intervista in vita sua, non si fa fotografare ed è oggetto di leggende che si tramandano a Hollywood. Come quella secondo la quale è un maniaco dei tagli alle spese che alla Marvel setacciava i cestini della spazzatura per recuperare graffette e cancelleria da riutilizzare. In Florida, dove vive, da anni litiga con tutti i vicini a suon di battaglie legali per ogni inezia e frequenta solo un paio di amici stretti che abitano nei paraggi. Uno è Nelson Peltz. L’altro si chiama Donald Trump, di cui è frequente ospite nella villa di Mar-a-Lago. Negli anni della presidenza, Trump considerava Ike Perlmutter uno dei pochi di cui fidarsi nel suo “cerchio magico” e le simpatie politiche del presidente della Marvel sono sempre state vicine all’ala più radicale dei repubblicani. 

 

Caratteraccio e ricchezza alla Tony Stark a parte, il miliardario Perlmutter è considerato un genio della cinematografia animata ed è stato il salvatore della casa dei supereroi, che ha risollevato dalla bancarotta per poi venderla alla Disney nel 2009. Fino al 2015 ha continuato a guidare la produzione dei film dell’universo degli Avengers, creando il successo di Iron Man, Capitan America e Thor e costruendo un pezzo alla volta il Marvel Cinematic Universe che da anni trionfa al botteghino in tutto il mondo. Ma Ike non ha mai digerito Iger e i suoi collaboratori, soprattutto Kevin Feige, il capo degli Studios disneyani. Gli scontri molto spesso sono stati di tipo ideologico-culturale. Feige per esempio spingeva per aumentare la diversità nell’universo Marvel, introducendo personaggi come il Black Panther dello scomparso Chadwick Boseman o l’eroina Captain Marvel. Perlmutter si opponeva a quella che vedeva come una deriva del “politically correct” e alla fine è stato messo fuori gioco con l’incarico non operativo di presidente.   

 

La minacciata scalata di Peltz è stata ispirata e guidata da lui, secondo quanto il team di Iger ha messo nero su bianco nei documenti con cui ha cercato subito di contrastare il raider che cercava di salire sulla plancia di comando. “Quando ho tolto a Ike il controllo della produzione dei film – ha detto Iger alla Cnbc – si può dire tranquillamente che non ne è stato felice e quella sua infelicità permane anche oggi”. Perlmutter, attraverso alcuni manager disneyani di cui si serve per far passare il suo pensiero, ha confermato il proprio giudizio negativo su Iger, ma ha detto di agire non per vendetta, ma per l’attaccamento che ha per l’azienda e per la preoccupazione che prova nel vederla sprecare soldi. 

 

Tutto rientrato? Difficile immaginarlo. Perché Peltz e Perlmutter restano in attesa di vedere come andranno i conti dopo la cura di Iger. E perché la Disney diventa un posto delicato quando si entra in campagna elettorale. Con la corsa alla Casa Bianca in arrivo, tutto l’establishment repubblicano riprenderà le accuse alla casa di Topolino di essersi svenduta alla cultura “woke”, di essere succube delle battaglie ideologiche dei democratici e di adeguare ad esse anche i film. Ike potrebbe soffiare sul fuoco, con il megafono di Trump, lamentando quella che vede come una deriva ideologica dei suoi supereroi, con Capitan America che oggi è un nero, con espliciti amori omosessuali e con “Wakanda Forever”, il seguito di “Black Panther”, che sembra un continuo richiamo al MeToo e alla rilettura del colonialismo e della schiavitù in corso nelle università americane. 

 

Ma anche il rivale di Trump, Ron DeSantis, tiene da tempo Disney nel mirino per un tornaconto elettorale. Dopo aver accusato da tempo la società di aver fatto troppe concessioni alla lobby Lgbtq, nei giorni scorsi ha provato a colpirla nel portafoglio e ha ottenuto, con un voto dei legislatori della Florida, il controllo dello speciale board che da decenni gestiva in maniera indipendente lo sviluppo di Disney World a Orlando e garantiva esenzioni fiscali all’azienda. 

 

Indebolito dai risultati di Borsa, sfidato dalle battaglie esterne, strattonato dalla politica, Topolino si trova così a celebrare il proprio centenario in mezzo a una tempesta. Ma le controversie rischiano di far perdere di vista un paio di cose che non si possono dimenticare quando si parla di Disney. 

 

La prima è che, problemi a parte, si tratta ancora di una straordinaria storia di successo. La società fondata da Walt Disney nel 1923 a Burbank, in California, è oggi un colosso da 200 miliardi di dollari e 220 mila dipendenti nel mondo, nel quale trovano casa brand dell’intrattenimento del calibro di Lucasfilm, Marvel, Pixar, National Geographic, Hulu (film e serie tv), Espn (il maggior network sportivo americano). La piattaforma Disney+, nonostante le perdite di fine 2022 che sono costate il posto a Chapek, è entrata nelle case di famiglie di tutto il pianeta alla pari e in competizione con Netflix o Amazon Prime. L’ultimo film di successo con il marchio Disney è “Avatar: la via dell’acqua”, che ha appena raggiunto i 2,2 miliardi di dollari d’incassi superando “Titanic” al terzo posto della classifica dei film a maggior incasso di sempre. E ai primi due posti ci sono il primo “Avatar” e “Avengers: Endgame”, cioè sempre roba di famiglia. 

 

La seconda cosa che sarebbe sbagliato perdere di vista, in mezzo alle beghe finanziarie, è il peso che questo secolo di storia ha avuto sull’immaginario collettivo di tutti noi. Il centenario è una buona occasione per riflettere sull’impatto culturale che la Disney ha avuto a livello globale, dal semplice intrattenimento alla ben più delicata sfera educativa.  Chi la vede come un simbolo dell’imperialismo americano, da sempre la dipinge come la regina di Biancaneve che, sotto sotto, è una strega cattiva. Lo stesso Walt Disney ha avuto in vita e ancora di più da morto accuse di ogni genere, dall’antisemitismo al razzismo. In Italia in particolare va forte l’idea di un Disney paladino delle idee massoniche, un personaggio che nelle teorie della cospirazione tira molto al pari dei vari George Soros e Bill Gates. 

 

Per chi fa la fatica di studiare un po’ più a fondo il personaggio, la realtà è assai diversa. I capi d’accusa di antisemitismo e razzismo sono caduti da tempo alla prova delle testimonianze dirette di chi lo ha conosciuto e ha lavorato con lui. Il tema della massoneria negli Usa non viene preso neanche in considerazione ed è in realtà una faccenda un po’ folkloristica, come lo sono spesso le logge americane. Per chi è grande abbastanza da ricordare la serie tv “Happy Days”, la massoneria di Disney equivale a quella dell’innocua “Loggia del Leopardo” che frequentava con orgoglio Howard Cunningham (Tom Bosley), il papà del protagonista Richie (Ron Howard). 

 

Invece di ritratti da macchietta, Walt Disney nell’anno del centenario meriterebbe di essere approfondito e capito. Si riscoprirebbe così la storia di un giovane disegnatore di talento, timido e pieno di fantasia, che nel 1923 con il fratello Roy mette in piedi un laboratorio di animazione nella Hollywood in piena esplosione e ne diventa ben presto un protagonista. Disney è uno di quegli insoliti geni americani che ogni tanto emergono per spiazzare tutti, un po’ come Benjamin Franklin, Thomas Edison o Steve Jobs. E’ difficile capire pienamente oggi la rivoluzione che fu il suo Mickey Mouse, all’inizio della stagione del cinema che abbandonava l’èra del muto e scopriva il sonoro e l’animazione. Ed è impressionante leggere il reportage che Atlantic Magazine dedicò nel 1940 ai nuovi studios della Disney, nell’anno in cui si lavorava alla realizzazione di “Fantasia”. Diciassette anni dopo la fondazione, oltre a Mickey Mouse e Donald Duck il mondo aveva già guardato con stupore capolavori come “Biancaneve e i sette nani” e “Pinocchio” e stava per scoprire “Bambi” e “Dumbo”. Un migliaio di persone lavoravano alla Disney e tra questi c’erano 600 disegnatori e inchiostratori tra i migliori al mondo, che realizzavano vere e proprie opere d’arte su celluloide sotto la supervisione di Walt che voleva controllare sempre tutto. 

 

In fondo la grande sfida che sta vivendo oggi la Disney, come tutto il mondo dell’entertainment e della comunicazione, è come far convivere quella creatività e ricchezza di contenuti, sviluppata in cent’anni, con le trasformazioni epocali imposte dal digitale. La testa di Chapek è caduta l’anno scorso perché si concentrava troppo sui parchi a tema e aveva lasciato che il digitale e lo streaming venissero gestiti solo con un approccio tecnologico e burocratico. Iger, appena tornato al comando, ha ridato potere ai creativi e ha spostato tutto su un approccio “content first”: pensare prima e soprattutto alla qualità del contenuto, del racconto, delle storie, poi a come e su quali piattaforme quei sogni verranno distribuiti. E responsabilizzare i creativi, lasciando loro libertà di manovra a patto di portare risultati. 

 

Ai bambini, ai giovani e agli ex giovani che da alcuni giorni visitano la mostra “Disney100” a Chicago – prima tappa di un tour mondiale che arriverà anche in Europa – non interessa nulla delle scalate di Peltz o delle accuse di “wokismo” di DeSantis. Bianchi o neri che siano, per tutti l’attrazione restano gli oggetti e i personaggi che hanno costruito un secolo di immaginario collettivo e fatto sognare intere generazioni. 

 

Quando giorni fa in un intervallo del Super Bowl, la finale del football americano, è andato in onda uno spot di 90 secondi dedicato ai cento anni della Disney, i 200 milioni di spettatori hanno avuto momenti di commozione nel rivedere la galleria di personaggi che si sono succeduti nei decenni e hanno condiviso sui social una valanga di ricordi. In un mondo pieno di guai come quello attuale, in fondo è rassicurante sapere che alla fine Thanos, Jafar e la strega cattiva finiranno tutti male. 

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