La recensione

Il professor Tomasi di Lampedusa. L'officina del Gattopardo raccontata da Francesco Orlando

Carmelo Caruso

Lo scrittore e l'allievo. Henry Beyle pubblica il "Ricordo di Lampedusa". La penna rossa dello scrittore, i segreti della prima copia battuta in uno stanzino. Ecco lo scrigno del "Principe"

Temeva che fosse “una porcata”. Era il 1957 e Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva finito di scrivere il Gattopardo. Lo aveva scritto con una biro rossa e buona parte sui tavoli dei bar. A Palermo, a Palazzo Butera, la sua casa, mancava una macchina da scrivere. Quattro anni prima, un ragazzo svogliato suonava alla sua porta. Si chiamava Francesco Orlando, aveva diciannove anni, ed era destinato a una tristissima carriera legale. Suo padre, Camillo, avvocato, possedeva un piccolo studio in una delle vie centrali della città. E’ in quello studio, in una “piccola stanzina”, nei giorni pari, i giorni di chiusura, che viene battuta, a macchina, da Orlando, la prima copia del romanzo. Quando Orlando e Lampedusa si incontrano era estate.

 

Orlando non è altro che una matricola universitaria che imbratta versi e con il mito del Don Giovanni. Lampedusa è già un “eccezionale anziano”, marito di una singolare psicanalista. Nobile, decaduto, grasso, di pelle olivastra, fronte ampia come un cocomero, abita in un palazzo senza riscaldamenti e con solo una stufa a gas “rumorosa e lacrimogena”. La sua terrazza ha come vista il porto di Palermo. Trascorre le sue giornate alternando soste nei caffè. E’ goloso. Si ferma prima alla Pasticceria del Massimo, poi al bar Mazzara. Passeggia sempre con una borsa di pelle carica di libri. E’ una specie di sacca per i tesori che acquista presso la libreria Flaccovio. E’ lì che fa razzie di Pléiade, la più illustre collana europea di classici edita da Gallimard. L’inglese lo ha studiato e lo conosce forse meglio dell’italiano.

 

Orlando non parla inglese. Lampedusa si offre come maestro, anzi, quasi con imbarazzo precisa: “M’impanco a maestro”. Dice a Orlando, l’allievo che racconterà quegli indimenticabili anni, sono tre in tutto, in questo suo “Ricordo di Lampedusa” (un libro d’oro, bizantino, che ripubblica la casa editrice Henry Beyle) che fortunato è colui che legge per la prima volta in inglese l’Amleto: “La prima, caro Orlando, è una data”. La più grande fortuna che può invece capitare a un ventenne è trovare un modello, uno che “s’impanchi a maestro”. Orlando grazie a Lampedusa trova il coraggio di abbandonare Giurisprudenza e iscriversi alla Facoltà di Lettere. Diventerà il nostro più noto francesista e i suoi testi capolavori della letteratura comparata. Lampedusa gli spiega che il vero privilegio è “sapersi annoiare” e che gli italiani usano troppe volte la parola “cuore”. Gli consiglia di farli cadere anche nei suoi versi (“Ecco, caro Orlando, un altro cuore è caduto”) e di non eccedere nel sentimentalismo.

 

Sarebbe errato definirlo un padre (il rischio che corrono tutti i maestri) così come Orlando non era un figlio (rimanere figlio di un maestro è la più grande sciagura che possa capitare). Entrambi concordano di vedersi ogni pomeriggio alle cinque e mezza e di studiare grammatica inglese. Si scambiano libri, opinioni. Lampedusa aveva separato il suo palazzo in piani letterari. Al primo c’erano i romanzi, al secondo i saggi storici. Il “non maestro” amava Stendhal, come lo amava Leonardo Sciascia, e si lamentava dei francesi che non gli avevano assegnato (dopo averlo promesso) il consolato di Palermo: “S’immagini, Orlando, che peccato! Avremmo avuto Chartreuse palermitana, e si figuri un po’ quali storie”. Lampedusa detestava profondamente la Sicilia che chiamava il “Perù” e si prendeva gioco dell’isola, di Palermo, dell’erotismo ostentato: “Non c’è città in cui si fotta di meno”.

 

Nel Gattopardo una delle figure più complesse è infatti quella del figlio del principe che lascia la Sicilia per Londra. Era il sogno del “principe”. Voleva tornare ragazzo, come Orlando, e viaggiare per l’Europa, lui che l’aveva visitata durante gli anni del fascismo. Dei francesi diceva che erano “tirchi”. Un giorno, per compiacerlo, Orlando parlò male della Francia provocando l’ira di Lampedusa: “Sono il più grande popolo del mondo!”. Riusciva perfino ad ammirare la ghigliottina che aveva decapitato, alla fine, la sua classe sociale, la nobiltà. Con Orlando aveva inventato una speciale suddivisione. Separava gli scrittori in “grassi e magri”. I grassi sono quelli che non nascondono nulla al lettore. I magri sono quelli che scrivono in maniera succinta: “In loro il non detto è più succoso del detto. Grassi sono Montaigne, Balzac, Mann. Magri sono Racine, Stendhal. Gide. Lampedusa era senza dubbio un pessimista. Nel 1957 si allontana da Orlando. Orlando comincia a pensare che “ormai ripeta sempre le stesse cose”.

 

Gli ultimi capitoli del Gattopardo non sarà più lui a batterli perché troppo impegnato “a preparare tre esami”. Fu quella la loro ultima estate. Il principe Lampedusa si ammala e lascia la Sicilia. Orlando scriverà una lettera che però non verrà mai aperta da Lampedusa. Aveva in realtà sconfitto il “non maestro”, il suo Gattopardo. Lo aveva schiacciato. Anziché il monopolio della memoria, Orlando preferì infatti perdere la memoria. La concentrò in queste poche pagine, convinto che la gratitudine, per quelle tre estati indimenticabili, non fosse altro che un debito eterno che il suo ricordo avrebbe “estinto solo in minima parte”.

 

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio