(foto Olycom)

l'autore riscoperto

Tommaso Labranca, il Flaiano del trash

Michele Masneri

Torna in libreria l'intellettuale irregolare e controcorrente ignorato in vita e celebrato in morte, con la sua rivista e il mondo dolente tra Milano e Pantigliate

Il momento, immersi come siamo in un trash perenne, da Sanremo a Harry e Meghan ai virologi convertiti in esperti di geopolitica, non potrebbe essere più propizio per riscoprire Tommaso Labranca, che fu scrittore, autore televisivo, intellettuale “irregolare” e “controcorrente”, ignorato in vita e celebrato in morte (morte avvenuta nel 2016, in sordina, a soli 54 anni). Tra i suoi titoli “Andy Warhol era un coatto”, “Estasi del pecoreccio”, “Chaltron Hescon”. E poi un malloppo  di saggi, articoli, fanzine, programmi, biografie di Renato Zero, Orietta Berti, Pietro Taricone, Michael Jackson, una “teoria del Trash”, e  Pantigliate, paese dell’hinterland milanese, trasformato in  osservatorio per raccontare l’Italia, dagli anni Ottanta in poi. Adesso l’editore Gog rimanda in libreria una raccolta stampata di uno dei suoi tanti progetti, la rivista “Labrancoteque”, enorme zibaldone di appunti, lacerti, spezzoni, critica musicale, diario degli errori. Perché Labranca è un Flaiano lombardo, tra le nebbie è a suo agio e non vi sfugge (viene in mente il recente documentario su Flaiano prodotto dalla Rai a opera di Fabrizio Corallo: e forse perché lo si è visto in questi giorni, lì Flaiano giovane tra le varie peregrinazioni era stato a un certo punto spedito a Pavia, e odiava quel clima e la mancanza di luce. Labranca invece vi sguazza, tra i paesi che finiscono tutti in “ate”). Al posto di Roma c’è Milano, nella commedia umana di Labranca: una Milano vissuta  ai margini, lateralmente, ma difesa a spada tratta. In un’intervista concessa a uno sconosciuto (format interessante e segnaletico, una delle tante che popolano la rivista uscita ai tempi solo in pdf e solo in 13 numeri), risponde così all’intervistatore che sfotte la città lombarda. “Non sarà bellissima, ma è il luogo in cui sono nato e in cui ho i miei ricordi. Non capisco come mai si debba sempre mancare di rispetto a Milano. Metropoli? Di sicuro non lo è per estensione. Però qui si possono fare cose che altrove non si possono fare. Come sanno bene alcuni miei cari amici gay del Gennargentu che qui vanno in giro indisturbati vestiti come Wanda Osiris mentre a casa loro li avrebbero già dati in pasto ai mamuthones”. 


“Labrancoteque”, enorme zibaldone di appunti, lacerti, spezzoni, critica musicale, diario degli errori. E’ a suo agio nella nebbia


Lui Milano la sfiora, sta appunto ai margini, a Pantigliate, “un paesino come tanti nella cintura milanese. A meno di trecento metri da casa mia finiscono le case inizia il Parco Agricolo Sud. Ormai uso Pantigliate come benchmark per valutare le persone. Spesso gente arrivata in città da borghi retrogradi o da luoghi avvelenati (ricordo una che veniva da Mestre) ride del fatto che io abiti a dieci chilometri dalla città. Anche qualche nota intellettuale di sinistra trasferitasi da poco in pieno centro si diverte a sfottermi per questa cosa. Io segno tutto nel libriccino nero e attendo”, scrive. Al posto dei pescatori di Fregene ci sono i rumeni, al posto della famiglia balneare Mastino c’è la famiglia transilvana Petrescu a cui dedicherà un romanzo, e poi non Cinecittà ma le star della tv di passaggio a Milano, alla Rai di Corso Sempione. C’è una serata surreale e crepuscolare in cui Labranca insieme ad Aldo Nove finalmente fanno la agognata conoscenza di Paola e Chiara, e qui Labranca è un Houellebecq della Brianza, pronto a farsi sedurre dall’orrido della nostra società, pronto ad accontentarsi di quello che il convento offre pur ben consapevole del basso profilo del tutto… “Dopo aver sentito dalla viva voce di Chiara il racconto della loro crisi e di un viaggio disastroso alle Seychelles, capisco fino in fondo Vamos a bailar”. Poi un giorno invece incontra le gemelle Kessler: “In un ristorante fusion che la sera diventa un posto infrequentabile perché arrivano gruppi di impiegati affamati d’esotismo cool con le loro colleghe taglia comoda e tutti urlano come se fossero in pizzeria e chiedono le forchette per mangiare il sashimi che condiscono con olio e limone. All’ora di pranzo invece regna il silenzio della penombra e l’odore di vaniglia delle candele. All’improvviso mi fanno notare che alle mie spalle, all’unico altro tavolo occupato, ci sono le gemelle Kessler. Le Kessler mangiano all’unisono, sollevando e abbassando le bacchette come facevano con le gambe. Non riesco a fare a meno di guardarle. Mi sento come quando da piccolo seguivo quella stessa affascinante simmetria in immagini televisive piene di riflessi argentati. Perché oggi si crede che la televisione fosse un tempo solo in bianco e nero. Invece al sabato sera il bianco diventava argento e il nero lacca cinese. Come quella della scodella dalla quale ora sto sorbendo la zuppa pechinese agropiccante, così piccante che spesso mi fa lacrimare. Ma in questo momento le lacrime scendono perché ho di fronte a me le Kessler dal vivo”. 


Nella sede Rai di Milano, mentre contempla i corridoi disegnati da Gio Ponti, incontra  Gegia, “icona di follia foucaultiana”


La Rai di Corso Sempione che risplende in mezzo alle nebbie è una specie di “apriti sesamo” che gli dischiude le porte della celebrità, celebrità ovviamente mortifera e foriera di malinconia, di trash. Qualunque simbolo del successo diventa condanna. Ecco un’avventura all’apice del design milanese. Mentre contempla i corridoi “disegnati da Gio Ponti, che chissà cosa aveva in mente quando li disegnava così alti, stretti, rivestiti di piastrelle piccolissime di un verde ormai evaporato” ecco che invece che abbandonarsi ai Compassi d’oro, agli interni milanesi, a Dimorestudio, incontra  Gegia, Gegia in uno studio  insieme ad Alessandro Meluzzi, Gegia “come icona di follia foucaultiana”. Improvvisamente Gio Ponti scompare e Gegia si prende tutto lo spazio. Ponti, come simbolo della Milano di successo e coolness impossibili, ritorna poi nel ritrovamento di un servizio di posate, da collezione, della serie “Conca”, che il povero Labranca reperisce in un mercatino svizzero, e chiede il prezzo, 3.500 franchi, e lui crolla, si arrende, si consola comprando un tragico cucchiaino svizzero “in vermeil con stemma”, a 3,50. Insomma siamo tra Flaiano, Fantozzi e Piero Chiara (che non a caso nell’intervista “proustiana” a cui è sottoposto da un settimanale indica come uno dei suoi autori preferiti). Labranca subisce ancora.

A Pantigliate il 14 marzo 2003 viene inaugurata la “Maison Labranca”, primo di una serie di tragici (ma divertenti, racconta chi c’era) party allestiti nella casa dello scrittore: “Locale caldaia only” e risotto “provola e champagne”: ma prima, venerdì 20 settembre 2002 ecco un “Déjeuner Éxotique”. I nove partecipanti hanno potuto gustare in penombra cibi cinesi, giapponesi, coreani, messicani e di dubbia origine, rigorosamente liofilizzati o precotti, godendo nel contempo oltre che di Al Jazeera”. Il tuo piatto preferito, gli chiedono in un’altra intervista possibile. “Tonno mangiato dalla scatola, in piedi, direttamente sul lavandino”. Beatles o Rolling Stones?  “Pooh”. 

 

Se Flaiano stava a Roma negli anni Cinquanta e Sessanta ha perfettamente senso che Labranca stia a Milano dagli Ottanta, perché è lì che le stanche idiozie della vita quotidiana, le idées reçues partorite dalle inesauribili energie dei commerci e degli slogan trionfano tra  la pubblicità, la tv, e poi internet e i social che fa a tempo a vedere (“Twitter è il regno di Mia Cuggina”, “mia cuggina aveva previsto con trentacinque anni di anticipo il pubblico di Twitter: Un mondo dove tante persone come lei si piccano di sapere tutto e zittiscono con arroganza gli altri”). Milano e la Lombardia sono anche l’epicentro di un vecchio grande amore, le tv private e le televendite: “Ah, quando, prima del digitale terrestre, si vedevano male. Il segnale peggiorava di qualità in certi programmi emulativi, come Domenica con Semeraro, triste copia di Domenica In”. Il tratto principale del suo carattere? “La marginalità”. Il suo migliore amico? “L’orso Berry, è alto 90 centimetri e vive accanto al mio letto”. Film cult? ovviamente “Il vedovo”, a cui ha dedicato uno dei suoi libri più famosi, se si può usare l’aggettivo “famoso” per Labranca (il libro comunque è “Progetto Elvira”, autoprodotto dalla sua casa editrice che si chiama 20090, come il Cap di Pantigliate). Come vorrebbe morire? “Presto”. Un po’ Flaiano un po’ Houellebecq, un po’ anche Walter Siti di Pantigliate, non ha nemmeno un briciolo del successo di questi tre. Anzi, quando intravede un briciolo di speranza, quando le cose cominciano a girare bene, scappa (lo aveva spiegato bene naturalmente Claudio Giunta nel suo libro “Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca”, il Mulino, 2020, che parlando di Labranca parlava anche di cosa vuol dire fare un lavoro intellettuale in Italia). Come se non fosse abbastanza dura, Labranca le poche volte che gli va bene, finendo pubblicato  dalla casa editrice giusta (Einaudi per “Chaltron Hescon”) o diventando autore della agognata tv (a un certo punto firma la trasmissione “Anima mia”, e il Dopofestival di Sanremo) litiga o si incazza o comunque fugge, come se inconsciamente non si sentisse degno di tutto quello sfavillio di normalità, la normalità del successo. Flaiano di pianura (“l’insuccesso mi ha dato alla testa”), con lo stesso gusto per il calembour e il disastro, si butta nel gioco di parole  (una rivista milanese che si chiama Osso-book; una festa per una certa Eva “Diamonds are for Eva”, derive enigmistiche arbasiniane sul tema Laetitia Casta, scritte a Sanremo durante il festival del 1999. “Laetitia Asta, Laetitia Costa, Laetitia Casca, Laetitia Canta, Laetitia Carta, Laetitia Rasta, Laetitia Pasta, Laetitia Vasta, Laetitia Tasta, Laetitia Castra, Laetitia Casbah, Laetitia Basta, Laetitia Hasta... la vista”).


Quando le cose cominciano a girare bene, scappa, come se inconsciamente non si sentisse degno di tutto quello sfavillio


Lascia appunti, foglietti, note, di critica culturale, di famigerato “costume”, quella cosa impronunciabile in Italia che fa subito “costume e società” (subito prima della rubrica: motori). Riguarda Visconti e trova esorbitante la lunghezza di “Morte a Venezia”, del resto l’originale era una novella, mica un romanzo. Ma “Visconti no, ha voluto produrre un film di 129 minuti, pur sapendo che tutta la trama sarebbe potuta essere concentrata in una di quelle micidiali recensioni fulminanti dello scomparso quotidiano La Notte: ‘Vecchio pederasta insidia fanciullo in città lagunare’. Visconti allunga, ammassa, stratifica. Annoia. Però tutte quelle piume ammassate nella hall del Des Bains provocano il solletico al naso. Dopo Visconti il cappello piumato ha avuto un’altra vittima illustre, Franco Zeffirelli, uno che se fosse stato vicino di casa dei Lumière avrebbe convinto i fratelli francesi a rinunciare alla loro invenzione. Nato come aiuto-regista del Maestro, nella sua carriera solista Zeffirelli ha disseminato il cinema italiano di cappelli piumati. Si dice che volesse usarne qualcuno anche nel Gesù di Nazareth, ma i severi consulenti religiosi alla sceneggiatura glielo impedirono”.  


Ecco invece una riflessione houellebequiana amara su aerei e aeroporti, mentre attende spiaggiato a Orio al Serio un tragico volo low cost per l’Inghilterra. “La colpa dei bivacchi nei gate non è solo dell’ineleganza naturale di un neoproletariato che ormai ha conquistato il mondo. Osama bin Laden ci ha messo del suo, imponendo un livello di sicurezza tra il ridicolo e il maniacale, anticipi assurdi per i check-in e obbligo di fare la fila davanti ai metal detector esibendo al mondo quale marca di deodorante utilizziamo. Non tutte le colpe però sono imputabili al barbuto signore che ormai riposa tra i pesci. Non è colpa di Osama se dietro le vetrate si vedono passare code con loghi che non suscitano gli stessi brividi estetici di quello della Pan Am. Chissà se tra quarant’anni sarà possibile realizzare un serial televisivo altrettanto stylish sulle hostess di Ryanair. Davanti al gate da cui si decolla per Valencia ho sfiorato una ventina di uomini tra i trenta e i quaranta che forse dicevano cose molto divertenti viste le frequenti risate. Peccato io non capisca il dialetto stretto delle valli camune. I bermuda a quadri si sprecavano e anche le camicie a fiori. Tra tutti quegli indistinguibili spiccava però il re della compagnia, uno più anonimo degli altri, ma il cui petto era attraversato da una fascia, simile a quella dei sindaci. Anzi, a quelle che pendono dalle corone funebri, visto che il nastro era fregiato da una scritta dorata: Addio al Celibato – giugno 2013”. 


Su tutto una colossale tristezza di fondo, una consapevolezza che tutto, a partire dallo star system, è tarocco e segnato dall’imitazione di qualcosa di più alto. Ecco l’incontro con Alex Del Piero, all’epoca celebre, ma Labranca detesta il calcio e non sa riconoscere alcun giocatore. E’ il 1999, Del Piero si presenta “abbronzato come lo Julio Iglesias dei tempi migliori e poggiava su una stampella perché reduce da non so quale infortunio a non so quale parte di non so quale arto inferiore. Era accompagnato da diversi dirigenti calcistici, come il Papa quando avanza tra cardinali, segretari e guardie del corpo. Mentre mi avvicinavo al gruppetto ero tentato di farlo… sarebbe stato fantastico arrivare davanti al gruppetto dei dirigenti, alla piccola folla che si era creata intorno e chiedere con aria smarrita: “Chi di voi è il signor… Del… Piero?”. 

Certo, Labranca al Dopofestival, e chissà cosa avrebbe detto del Sanremo venti-ventitré, con Chiara Ferragni nuda ma disegnata e il suo entusiasmo stridulo, e il marito avvinto a “Rosa Chemical” che sembra veramente un personaggio di un suo racconto o reportage, con l’accento padano e i natali a Voghera (è la nuova casalinga, chiaramente). Di Arbasino Labranca nutre una stima colossale e depressa, perché tanto quel grande frequentava il jet-set, tanto lui è relegato a Orio. Ecco la desolazione di leggere le “Lettere da Londra”, i resoconti giovanili dell’Arbasino di stanza in Inghilterra, tra i lord, qui mentre Labranca sta tornando da una lavanderia a gettone.


Di Arbasino nutre una stima colossale e depressa, perché tanto quel grande frequenta il jet-set, tanto lui è relegato a Orio al Serio


Uno dei pochi in cui si riconosce è Walter Siti; c’è una rara intervista in cui Labranca fa le domande e non dà le risposte: “Nelle borgate la cultura non esiste. Esiste al massimo quella pop” dice lo scrittore di “Troppi Paradisi”. Che a te non fa paura, ribatte Labranca. “A molti sì, perché lo considerano sottocultura. Io credo il contrario. Intanto credo che il rapporto tra media e pubblico sia orizzontale. Quando sento un ragazzo che parla all’amico della sua storia d’amore e la descrive come ‘roba da Stranamore’, laddove un altro avrebbe tirato in ballo Giulietta e Romeo, mi accorgo che il riferimento culturale non è più a un elemento alto, Shakespeare, ma a quel teatro che i media mettono in scena e in cui pubblico si sente protagonista non spettatore”. Con Siti Labranca sembra rinfrancato, compreso, nel suo piano di ascolto del presente, ma è uno dei pochi sprazzi “seri”. Anche la musica è una cosa seria, anzi la cosa seria, e Labranca in questo è tondelliano, racconta la musica del suo tempo (con tanto di playlist delle sue feste a Pantigliate), indaga i gruppi, ecco i Daft Punk  (“Ma davvero questi due signori con i caschi hanno creato una grande opera riproponendo quella chitarrina che è risuonata sempre uguale negli Chic, nelle Sister Sledge, nel disco per Diana Ross che Diana Ross odia e persino in un mix per la loro connazionale Sheila Spacer che già qualche anno fa era stato saccheggiato da quei bietoloni degli Alcazar in Crying at the Discotheque facendo credere alla Mtv Generation che Spacer fosse una cover di Crying?”. La risposta ovviamente è no: “musica buona per spolverare” (e Giorgio Moroder “come può, dopo quarant’anni di America, avere ancora quell’accento anglotrentino?”). Crying at Labrancotèque.

Poi il talento sbrodola, scivola, passa sotto la porta della contemporaneità presa a sberleffi: Labranca fa tutto quello che non bisogna fare in Italia, quel paese dove se vuoi essere preso sul serio devi tu prenderti sul serio (perché se per caso il pubblico leggendoti si diverte, pensa che tu rida alle sue spalle! Siamo sempre a Voghera). 

Si sognerebbe oggi un’intervista a Giorgia Meloni alla Garbatella (che è la Pantigliate di Roma); intervista che la anzi il premier  forse gli concederebbe, con quel fiuto per il pop che la contraddistingue. Oggi, se fosse vivo, che sogno, il destra-centro che gli offre la direzione artistica del Sanremo Venti-Ventiquattro, e ce lo si immagina: banda dei carabinieri di Pantigliate, fantasy, draghette, Ultimo, Rosa Chemical redenta patrona del Family Day. Ma c’è da star sicuri che avrebbe rifiutato anche questo, per rifugiarsi a Pantigliate, a far l’irregolare, in un paese soprattutto irregolare nei pagamenti (e del resto, in una delle interviste a cui si sottopone da parte di sconosciuti, proprio “bonifico” risponde essere la parola più bella del vocabolario italiano). 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).