Paolo il fluido

Altro che Rosa Chemical, torna l'“Alfabeto Poli”

Giancarlo Mancini

L'autobiografia di Poli pubblicata da Einaudi dieci anni fa è il ritratto di un mondo dimenticato, sospeso tra il teatro e il café chantant. Il suo segreto? La naturalezza, la stessa con cui viveva il sesso

Svanite assieme all’effimero sanremese provocazioni e intemperanze fregolistiche portate dalle sedicenti brigate dell’ideologia gender e dell’amore poligamo, si torna a parlare proprio in questi giorni di Paolo Poli, uno che con ben altra leggiadria ha volteggiato attorno alla fluidità, facendo della propria effeminatezza una cifra specialissima. A dieci anni esatti dalla prima pubblicazione (e a sette dalla scomparsa dell’attore) Einaudi ristampa infatti l’Alfabeto Poli (176 pp., 14,50 euro), non solo un’autobiografia involontaria, montata dal curatore Luca Scarlini assemblando spezzoni di interviste disseminate fra radio, tv e carta stampata in oltre mezzo secolo di carriera, ma anche il ritratto di un mondo dimenticato, sospeso tra il teatro e il café chantant.

 

Nato il 23 maggio 1929, nel quartiere fiorentino di Rifredi, figlio di un carabiniere e di una maestra montessoriana, Poli cresce in un’atmosfera perbene ma non ottusa, credente ma non bigotta, ottocentesca ma non reazionaria, strapaesana, si potrebbe dire più precisamente se con questo termine, ingiustamente virato al negativo nel Dopoguerra, non la si volesse liquidare. Impara a leggere spinto dalla golosità, per comprendere la ricetta delle frittelle di Pellegrino Artusi: “Avevo visto che nel cassetto del tavolo in cucina c’era questo libro meraviglioso che aveva come copertina uno Chardin, con un paiuolo e una lepre ciondoloni. Questa figura mi affascinava, pian piano col ditino ho cominciato a leggere frit-te-lle. Non so come ci sia riuscito, stando in ginocchio sulla seggiola che veniva prillata con gran pericolo di cascamento”. Frequenta la parrocchia di Santo Stefano in Pane, dove fra il catechismo e le attività ricreative, resta impressionato dall’armamentario scenico delle processioni, dal cerimoniale liturgico, allora (siamo prima del Concilio), così imponente. Iscritto alla facoltà di Lettere dell’Università di Firenze, segue i corsi di Roberto Longhi e l’attività del coevo Centro teatrale, dove conosce fra gli altri Ilaria Occhini e Ferruccio Soleri, con i quali dà vita alla compagnia dell’Alberello. Alla fine degli anni Quaranta inizia a lavorare alla sede Rai di Firenze, in macchiette e favole, diventando un raffinato lettore, capace di variare i registri più disparati facendosi anche apprezzare per la chiarezza della lettura. Sempre in quel periodo, conosce Zeffirelli, “bello come una spiga di grano”, personaggio al quale riconoscerà sempre un’importanza fondamentale per la propria carriera artistica. Quando infatti negli anni successivi Poli arriva a Roma, in cerca di lavoro nel cinema, è spesso ospite a casa dell’amico, dove conosce tanti divi dell’epoca, anche il venerato Brando, dal quale però non resta ammaliato più di tanto: “Se lo chiamavi, lentamente alzava lo sguardo e ti fissava tra il macho e il languido. Un po’ come Greta Garbo. Solo che la Garbo aveva inventato il linguaggio del corpo nel cinema: la palpebra che si abbassa e vela il pensiero, la mano che tira indietro i capelli: sembrava una statua di Brâncusi”.

 

Spezzoni di interviste disseminate fra radio, tv e carta stampata, ritratto di un mondo dimenticato, sospeso fra il teatro e il café chantant

 

Inizia a lavorare a Cinecittà, ossigenato, ma presto capisce che non è quella la sua strada: “Piacevano gli uomini virili, io ero effeminato e non andavo bene, mi facevano fare sempre l’amico del protagonista”. Il cinema è un’avventura fugace, una decina in tutto le apparizioni sul grande schermo. Una delle più curiose è quella in Per amore… per magia… di Duccio Tessari, rilettura casereccia della favola di Aladino, dove Poli è abbigliato con calzamaglia, giarrettiera color oro sulla gamba e caschetto arancione. Accanto a lui, molti divi della canzone dell’epoca, Gianni Morandi, Toni Renis e Mina che secondo qualche racconto cerca anche di sedurre Poli, inutilmente. La svolta della carriera avviene quando arriva a Genova, nel ’58. Lì tre giovani attori, Myria Selva, Paola Giubilei, Duilio Provvedi, hanno da poco dato vita, nei sotterranei del Palazzo della Borsa, a un minuscolo spazio teatrale. Un luogo inconsueto, frequentato, ricorda Poli, di giorno dagli uomini d’affari in “pausa di lavoro” con signorine di “facili costumi” e di notte dai teatranti e dallo sparuto pubblico di curiosi che li segue. In questa cantina d’antan, l’attore trova Aldo “Dado” Trionfo, il quale lo usa un po’ ovunque, sia negli allestimenti dei grandi drammaturghi contemporanei (Beckett, Genet) sia in farse di Feydeau dai titoli come Amore e pianoforte e Non andartene in giro tutta nuda, lasciandolo poi libero di esibirsi in recital come Piccole storie di santi arcangeli, dame barocche, ragazzi di vita, innamorati ed altri o Semplici ariette e canzoni povere.

 

Poli ha già scoperto il gusto di mixare l’alto e il basso, “la sopra e la sottoletteratura”, melodie dimenticate e poesie provenzali del 12° secolo, il tutto ad un ritmo forsennato. L’importante è non lasciare tracce dietro di sé, non pretendere di dire o insegnare nulla allo spettatore, in osservanza al palazzeschiano “lasciatemi divertire”. “Il messaggio del mio teatro? Io il messaggio lo lascio nella segreteria telefonica” amerà ripetere più tardi. La svolta nella carriera avviene a Milano, dove si trasferisce all’inizio degli anni Sessanta. Al teatro-cabaret Gerolamo porta in scena con una compagnia tutta sua Il Novellino, attirando l’attenzione nientemeno che di Camilla Cederna che lo ribattezza “il professorino che canta”. Nella città lombarda stringe amicizia con Giancarlo Cobelli e Laura Betti, con la quale instaura un rapporto speciale, testimoniato da questo ritratto dell’attrice: “Aveva la bellezza di un quadro barocco del ’600, aveva una vena verde in fronte, una carnagione bianchissima. Rompicogliona, anche perché le donne di allora erano delle virago, altrimenti non le avrebbero lasciate sopravvivere”. I due vanno anche a vivere insieme, in una casa senza porte, “anche a me piacevano spalancate, ma lì era aperto proprio tutto e io le dicevo: Ma Laura, quella del cesso, almeno, chiudiamola, no?”. Ne combinano di tutti i colori, alla radio fanno la parodia della Cavallina storna, sconsacrando gli endecasillabi sciolti del poeta del “Fanciullino”, cantano La ballata del pover’uomo con le musiche di Fiorenzo Carpi. La canzone piace alla signora Campari che manda a Poli un mazzo di violette e una commissione di 12 caroselli. È il primo introito importante, reinvestito interamente nella ragione sociale: tredici proiettori, bauli a schiena d’asino, un pavimento di stoffa forte. 

 

L’osservanza del palazzeschiano “lasciatemi divertire”. “Il messaggio del mio teatro? Io il messaggio lo lascio nella segreteria telefonica”

 

Sempre a Milano, Poli conosce Arbasino che scrive per lui Ossigenarsi a Taranto, storia di un ragazzo specializzato in marina, attorno a quel grande porto naval-industriale diventato anni dopo dilemma atavico delle nostre classi dirigenti. La canzone arbasiniana contiene più di un rimando autobiografico alla sfrenata coppia Poli-Betti, tutti e due ossigenati e con una passione per i marinai: “Si usciva insieme per conquiste, ma si faceva per scherzo. Una volta s’incontrò dei marinai che c’invitarono in pizzeria, ma toccò a me pagare perché non c’avevano una lira”. Si mangia un uovo sodo al giorno in quegli anni frenetici: “Quando si pigliava la paga, si andava invece al ristorante ungherese, col violino tzigano e giù gulasch. Io non ingrassavo mai: il nervoso e gli ormoni femminili bruciano evidentemente in maniera diversa. Se no si andava alle feste e si viveva a whisky e noccioline. Si saliva su da americani, francesi o tedeschi, si diceva: ‘uno scotch’. Ubriache, ma brillanti”. 

 

Trovata la ricetta giusta alla quale resterà fedele per tutta la vita (lavorare tanto e mangiare poco), Poli mette assieme tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta alcuni dei suoi spettacoli più amati. In Rita da Cascia (1967) rievoca con una iconoclastia meno feroce di quanto si pensò all’epoca quel mondo di santi che ne aveva segnato l’infanzia. Il successo travolgente dello spettacolo non gli risparmia polemiche a non finire, l’irruzione delle forze dell’ordine in sala e un’interpellanza parlamentare del futuro presidente della repubblica Oscar Luigi Scalfaro per vilipendio alla religione di stato. Eppure a quell’universo Poli continua a tornare per tutta la vita, come prova da ultima la sua casa romana, ricolma di quadri, statuine, oggettini riconducibili a quella moltitudine di beati che oggi per molti sono solo un nome sul calendario. 

  

In prossimità di un Gay Pride, gli chiedono se intende partecipare: “E che devo andare a fare? Trovo noiosissimo anche il carnevale di Viareggio”

  

Nel ’69 allestisce quello che alcuni critici definivano un “fumettaccio sull’amor materno”, La nemica di Dario Niccodemi facendone non solo una parodia del mammismo italico ma anche del campionario di svenevolezze, di mossette, di rotear d’occhi che hanno costituito per decenni il repertorio immancabile delle nostre grandi attrici drammatiche. E poi Carolina Invernizio e La Vispa Teresa, nel quale, vestito da bambina con le treccine bionde, contagiava l’intero teatro di un’allegria inarrestabile saltellando e canticchiando. Santi (o sante), vecchi classici, letteratura d’appendice. Tutte cose guardate con sospetto dai critici e dagli intellettuali, con indifferenza dai giovani teatranti, costretti poi a prendere atto della capacità di Poli di risvegliare con leggerezza e brio parole impolverate: “Ho mille ambizioni culturali, ma non si devono vedere”.

 

Frammenti di questi fortunati spettacoli confluiscono nelle quattro puntate di Babau, programma televisivo (con la regia di Vito Molinari) realizzato nel ’70 ma subito censurato e andato in onda solo sei anni dopo. La prima puntata, dedicata al mammismo (le altre a conformismo, arrivismo, intellettualismo), inizia come Comizi d’amore di Pasolini, con Poli microfono in mano sulla strada a raccogliere opinioni. Oggi visionabile su Raiplay, Babau è un condensato del suo mondo figurativo ed estetico. Ci sono i suoi autori prediletti (Palazzeschi, Stecchetti), il gusto per la provocazione, come quando, con un neonato in braccio, lo apostrofa amorevolmente dicendo che “starebbe bene con il rosmarino e un limone in bocca”. Ancora più sorprendenti sono i titoli di coda, con l’elenco dei realizzatori messo da Poli interamente in musica, per essere cantato, in coro, dal gruppo degli attori al completo. All’inizio degli anni settanta inizia a collaborare ai suoi spettacoli anche la sorella Lucia, alla quale è sempre stato legatissimo: “In scena abbiamo le stesse armi, io sono stato più maliarda di lei, lei è più diretta, più virile”. Diventano presenze abituali anche Milena Vukotic (famosa poi per essere stata la moglie di Fantozzi a partire dal terzo film della serie) e Marco Messeri. Negli anni successivi Poli diventa un divo riconosciuto, seppur sempre schivo e solitario. Nel ’90 porta in scena Il coturno e la ciabatta tratto da Narrate, uomini, la vostra storia di Savinio, spettacolo di enorme successo, capace di superare le mille repliche. 

 

Il rapporto speciale con Laura Betti. Alla radio fanno la parodia della “Cavallina storna”, sconsacrando gli endecasillabi sciolti di Pascoli

 

A cavallo dei anni duemila, quando ormai è diventato un maestro indiscusso della nostra scena, sempre più sovente gli accade di essere interpellato su questioni che poco o nulla c’entrano con la sua arte. Quando una volta, in prossimità di un Gay Pride, gli chiedono se intende partecipare a quell’evento, risponde: “E che devo andare a fare? Io trovo noiosissimo anche il carnevale di Viareggio”. D’accordo con le rivendicazioni dei diritti civili, la libertà di poter manifestare liberamente le proprie inclinazioni sessuali, ma, si chiede: “Quale orgoglio? Per me è una cosa naturale essere omosessuale”. È l’occasione per collocarsi finalmente da qualche parte, altrove: “Sono di un’epoca in cui eravamo aristocratici nella testa”. Rivendicando con queste parole quella naturalezza che sta nell’agire più che nel dire o nel dichiarare e che in fondo, forse, è anche una delle ragioni del suo teatro.

Di più su questi argomenti: