Facce dispari

Adriano Ferraiolo: “I burattini non temono lo smartphone”

Francesco Palmieri

Il cavalier Adriano Ferraiolo è alla quarta generazione del nobile esercizio: "I bambini sono rimasti uguali. Si emozionano ancora e riguardano gli spettacoli su You Tube"

Tra le millemila bipartizioni in cui, negli ozi rari al bar, ci divertiamo a collocare l’umanità, c’è quella tra chi venderebbe a quattro soldi l’Abbecedario nuovo per entrare nel Gran Teatro dei Burattini, come fece Pinocchio, e chi invece da ragazzo probo filerebbe dritto a scuola. Per chi è ascritto alla prima categoria c’è una ulteriore suddivisione, tra chi sedendo in fondo alla platea si gode placido le botte tra Arlecchino e Pulcinella e chi, al contrario, agogna o teme da un istante all’altro di essere riconosciuto e trascinato lassù, sul palcoscenico, dai suoi fratelli burattini. In ogni caso, malgrado o in grazia delle rispettive inclinazioni, a ognuno piacerà sapere che il mestiere di burattinaio resiste in buona salute, dribblando le insidie di TikTok e le albagie digitali. Il cavalier Adriano Ferraiolo, bordeggiante gli ottant’anni, è alla quarta generazione del nobile esercizio e non è l’ultima: prosegue nella quinta con i figli Fabio di 52 anni e Simone di 47. Né si esclude la sesta.

Da Salerno, dove risiede la famiglia, il Teatro Nazionale dei Burattini si sposta là dov’è chiamato, al chiuso o all’aperto, fra piazze e pinete, con visite frequenti nelle scuole e talvolta all’università. Come molti ottimisti nel mondo del teatro, il cavalier Adriano è scarsamente persuaso dall’anagrafe, quasi che animando Pulcinella da una settantina d’anni ne avesse assunto l’acronicità.

 

I bambini che vengono ai suoi spettacoli saranno profondamente diversi da quelli di quando cominciò.

Nemmeno per sogno. Sono come prima. Poco tempo fa ho portato il teatro al borgo di Taranto, dove mancavo da cinquant’anni, e non sembravano trascorsi. Sono rimasti uguali anche gli adulti, senza differenze di ceto. Molti al termine vengono a ringraziarmi perché per un’ora hanno dimenticato lo smartphone, però qualcuno tornando a casa riguarda le nostre farse su YouTube.

 

Qual è il repertorio?

Conta più di cento copioni, dalle farse di Petito alle commedie di Scarpetta, Viviani e Goldoni. Ho ereditato i quaderni manoscritti da mio padre Francesco e da nonno Pasquale, già figlio d’arte perché il bisnonno Filippo, napoletano dei Quartieri Spagnoli, lavorava al luna park. I nostri burattini non vanno confusi con le rispettabilissime ‘guarattelle’. Noi riproduciamo su scala ridotta il vero e proprio teatro in cinque metri per tre. Con scenografie, luci, effetti sonori.

 

Un cavallo di battaglia?

“Miseria e nobiltà”, riduzione della celeberrima commedia di Scarpetta, che dura 40 minuti. Chi ha visto il film ricorderà Totò, che noi sostituiamo con Pulcinella. L’anno scorso una studentessa si è laureata con 110 e lode a Campobasso con una tesi sul nostro adattamento.

 

Sulla maschera ci sono mille interpretazioni. Qual è la sua?

Pulcinella, specchio del carattere napoletano, non è cattivo. Per tradizione dei burattinai usa spesso il bastone, ma tutte le nostre commedie finiscono con lui che dice: “Sarei più contento se avessi il perdono e il compatimento di questo rispettabile pubblico”. Chiede perdono perché ha picchiato e compatimento perché bisogna capire che è stato costretto a farlo.

 

È il suo burattino preferito?

Sì, da quando ero bambino e lavoravo coi miei due fratelli, che non ci sono più, mi veniva particolarmente bene la voce di Pulcinella. Ma in “Miseria e nobiltà” presto voce a nove personaggi.

 

Quanti burattini avete?

Più di cinquecento, fra cui una trentina risalenti al ’700. Quando occorre me li fabbrico e per completarne uno impiego più di dieci giorni. Una volta finito, ne resto innamorato. Non ne ho venduti mai.

P

er venticinque anni, il vostro “stabile” fu il napoletano Sancarluccio dove si esibiva La Smorfia di Troisi, Arena e Decaro.

Noi eravamo in cartellone la domenica mattina e loro la sera. Quando Troisi veniva a vedere il nostro Pulcinella, gli potevi togliere i denti da bocca per quanto rideva. Con Lello Arena mi sono rincontrato anni dopo, perché volle che gli mostrassi una maschera di Pulcinella appartenuta a Petito, eredità di famiglia che serbo come una reliquia.

 

Guadagna bene un burattinaio?

Quand’ero piccolo sentii dire a mio padre che i soldi non gl’interessavano, amava più sentire la platea. Non lo capii e gli chiesi, dandogli del ‘voi’ come s’usava: “Papà, com’è possibile? Pensate più alla gente che al guadagno?”. “Da grande”, rispose, “lo penserai anche tu”. Aveva ragione. L’ho provato quando al Regio di Parma sostenni uno spettacolo di un’ora e venti, “Na nuttata ’e guaie”, da solo con due burattini. Per gli applausi alla fine.

 

Quanti personaggi possono entrare in scena?

Contemporaneamente fino a una decina, ma con cinque burattinai. Nel “Corsaro nero” se ne avvicendano, in totale, addirittura venticinque.

 

Dove tenete gli spettacoli?

D’inverno coi miei figli dovunque ci chiamino. D’estate Fabio va in Abruzzo, Simone in Versilia e io a Tropea. Ma abbiamo disseminato di ricordi buoni tanti posti. Posso vantarmi di sette cittadinanze onorarie.

 

Le piazze sono cambiate?

Sì, il traffico ha stravolto l’acustica urbana. È bellissimo quando invece ti ritrovi nella pineta di Forte dei Marmi, nel silenzio tombale che precede la commedia, sentendo che la platea è tutta tua anche per un’ora e mezza.

 

È difficile catturare l’attenzione per tutto il tempo?

È necessaria una recitazione ritmata. Soprattutto, bisogna saper tagliare. Ad allungare ci vuol niente, il difficile è sempre tagliare.