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Il racconto

Donne di quadri. La performance di Vanessa Beecroft a Palermo

Valentina Bruschi

Vestite o nude, libere o costrette, giovani o vecchie. Le modelle rivoltano il potere dello sguardo, che diventa loro. Rappresentano una femminilità più pesante, vissuta. Sono le opere viventi dell'artista

"Non parlate, non interagite con gli altri, non bisbigliate, non ridete, non muovetevi teatralmente, siate semplici, siate naturali, siate distaccate, siate classiche, siate inaccostabili, siate forti, non siate sexy, non siate rigide, non siate casual, assumete lo stato d’animo che preferite (calmo, forte, neutro, indifferente, fiero, gentile, altero), comportatevi come se foste vestite e come se nessuno fosse nella stanza, siate come un’immagine”. Queste sono alcune delle regole non scritte che l’artista Vanessa Beecroft indica alle modelle che partecipano ai suoi tableaux vivants, messi in scena in alcuni dei più importanti musei del mondo da quasi trent’anni.

L’artista, inoltre, raccomanda alle performer di non stabilire contatti con gli occhi, di mantenere la posizione assegnata, di non guardare nella macchina fotografica, di resistere stando dritte in piedi fino alla fine della performance perché ognuna è elemento essenziale della composizione e il comportamento di ciascuna influenza quello delle altre. Queste regole ammettono solo leggeri movimenti che non modificano la composizione geometrica iniziale disegnata dall’artista, ma è assolutamente vietata qualsiasi interazione con il pubblico o dialogo tra le modelle. Le donne devono restare nella “soglia del visivo”.

È il corpo femminile il soggetto principale delle performance di Vanessa Beecroft (nata a Genova nel 1969 da madre italiana e padre inglese, vive negli Stati Uniti dal 1996, prima a New York e oggi a Los Angeles), realizzate con la volontà di enfatizzare il contrasto tra nudità e abbigliamento, costrizione e libertà, individualità e collettività, forza e debolezza, per stimolare il dibattito sulle contraddizioni della realtà contemporanea. Il linguaggio che l’artista ha scelto per la sua ricerca, dopo gli studi di scenografia all’Accademia di Belle Arti di Brera, è quello, effimero, della performance art che concentra la tensione creativa in poche ore e spiazza il pubblico, provocandolo attraverso la rottura di tabù, come la nudità.

Cosa rimane di questi elaborati “quadri viventi”? Fotografie, video e polaroid che rispecchiano la sua personale estetica, ai quali si aggiungono disegni, tele, sculture e installazioni, che diventano qualcosa di diverso e autonomo rispetto all’esperienza dell’evento dal vivo, dove viene sottolineata la distanza incolmabile tra ciò che è precario, fragile, caduco e ciò che, al contrario, è permanente, immobile, eterno.

La nudità è stata una delle cifre delle performance più celebri di Vanessa Beecroft e una di queste, VB55 (i titoli essenziali delle opere sono sempre le iniziali dell’artista seguite dal numero della performance in ordine cronologico) realizzata nel 2005 alla Neue Nationalgalerie di Berlino, è stata lo spunto per un famoso saggio del 2009 di Giorgio Agamben, tra le figure di maggior spicco del panorama intellettuale contemporaneo.

In quell’occasione l’artista presentava cento donne nude, coperte soltanto da collant trasparenti, ferme e imperturbabili, esposte allo sguardo incuriosito e, allo stesso tempo, imbarazzato del pubblico. Secondo Agamben, le intenzioni dell’artista erano quelle di capovolgere la semplice prospettiva voyeuristica tra pubblico vestito e modelle nude: “Non vi era nulla di più perfido dello sguardo annoiato e impertinente che soprattutto le ragazze più giovani sembravano a ogni istante gettare sugli inermi spettatori”. In questo modo, l’artista aderisce agli stereotipi della donna-oggetto per sovvertirli e l’effettiva nudità delle modelle viene cancellata malgrado la realtà oggettiva. 

Questo gioco di sguardi, come un campo di forze contrapposte, viene sottolineato anche dallo scrittore Mauro Covacich, che ha commentato la penultima performance dell’artista, VB93, tenutasi lo scorso ottobre nello Studio 5 di Cinecittà con trecento donne che emanavano “un’energia soverchiante”, quasi a dire “noi siamo la rappresentazione di un cambiamento radicale, noi vi rovesciamo addosso il vostro sguardo, lo respingiamo con la nostra forza e la nostra baldanza liberandoci dalla condizione di oggetti, assoggettandovi a noi come ridicoli, patetici guardoni, detentori di una supremazia maschile che hai i minuti contati”. Ma al di là di questo evidente messaggio politico, le performance di Vanessa Beecroft, nell’elemento inafferrabile ed enigmatico dell’evento momentaneo, processuale, toccano tematiche che vanno dal particolare all’universale come riflessione sull’identità femminile, sulla natura e sul mistero dell’esistenza umana.

L’ultima performance, VB94, è stata realizzata lo scorso 8 dicembre in una delle sale dedicate alla scultura rinascimentale della Galleria regionale della Sicilia, tra santi e madonne in marmo di Carrara scolpite da Domenico e Antonello Gagini, nella straordinaria dimora tardo quattrocentesca di Palazzo Abatellis a Palermo, allestita dall’architetto veneziano Carlo Scarpa, a metà degli anni Cinquanta, in uno dei più ammirati esempi di museografia contemporanea, che ancora oggi fa scuola. Il progetto, ideato dall’artista proprio per Palazzo Abatellis, è composto da venti teste scolpite (modellate in argilla e poi riprodotte in ceramica, bronzo e cera) e altrettante modelle, presenti solo durante la performance: elementi diversi in un confronto con la collezione del museo per creare un evento destabilizzante nella quiete rarefatta delle sale.

Per la prima volta, l’artista ha presentato una colonna sonora suonata dal vivo, composta dal musicista franco-svedese Gustave Rudman, che ha contribuito ad armonizzare tutti gli elementi diversi presenti in VB94: tableau vivant e scultura, collezione e contesto. Un progetto che ha avuto un lungo periodo di gestazione e di dialogo tra l’artista e la direttrice del museo, Evelina De Castro, storica dell’arte, che afferma: “Palazzo Abatellis ha accolto Vanessa Beecroft e ha ospitato la sua opera. Ci siamo dette fin dal primo incontro con l’artista, che ha preceduto di due anni la performance, che non ci saremmo date obiettivi precisi, volutamente non definiti, con immersioni di studio sempre più autonome di Beecroft tra le sale e le collezioni Abatellis. Un obiettivo non facile per chi deve far funzionare un organismo vivente quali sono i luoghi dell’arte, ma necessario per il rispetto di tutte le istanze culturali, storiche e artistiche, del continuo presente custodito nei musei”.

Tra le performer di VB94 alcune donne residenti del centro storico di Palermo e altre che avevano già collaborato con l’artista, vestite con abiti bianchi simili alle tuniche monacali delle suore di clausura che hanno abitato la dimora per oltre quattrocento anni prima che diventasse museo. In prima fila Carlos, un ragazzo che impersona una Maddalena penitente, come nelle rappresentazioni pittoriche della collezione di Abatellis, e un neonato di sei mesi che allatta al seno della madre-modella, richiamo alle presenze marmoree delle “madonne del latte” rinascimentali. Un “trionfo della vita” idealmente contrapposto al celebre affresco monumentale dal titolo “Il trionfo della morte”, custodito nello stesso museo.  

In una sala affollata dal grande afflusso di pubblico, le interpreti della performance, le sculture di Vanessa Beecroft e le opere della collezione del museo hanno condiviso un’identica tensione verso un’ideale di bellezza fuori dal tempo. Terminato il momento della performance, è possibile vedere l’installazione scultorea temporanea composta dalle teste che riproducono prevalentemente, quasi in maniera ossessiva, il modello del busto di Eleonora d’Aragona realizzato da Francesco Laurana nel 1465 circa, esposto nella sala accanto: immagine postuma e idealizzata dell’infanta aragonese, morta nel 1405.

Al Laurana quindi fu commissionato il ritratto di un volto sconosciuto di una donna scomparsa da oltre mezzo secolo e, per realizzarlo egli si rifece ai modelli astratti della bellezza muliebre definiti nel Rinascimento, quali la purezza delle forme e la costruzione geometrica che sembrano rievocare le opere di artisti come Piero della Francesca. Un ritratto femminile idealizzato che può essere messo in relazione diacronica con le icone della moda della nostra società consumistica. L’ovale del viso di Eleonora è esaltato dai lineamenti sottili e dagli occhi dal taglio obliquo, le cui palpebre semi-abbassate suggeriscono un’aria distaccata. Atteggiamento accentuato da un sorriso enigmatico: la giovane età è tuttavia presaga della morte? 

L’archetipo di tutte le performance di Vanessa Beecroft sembra essere una continua rielaborazione del primo confronto che ha messo in scena tra pubblico e ragazze in VB01 alla Galleria Inga Pin di Milano nel 1993, dove espone il cosiddetto “Libro del cibo”, un dattiloscritto all’interno del quale sono elencati tutti i cibi da lei ingeriti giorno per giorno per anni, specificando quantità e colore. Il libro era esposto al centro della stanza e sulle pareti disegni e acquerelli di ragazze stilizzate, filiformi, realizzate con tratto nervoso e colorate di rosso, giallo e arancione.

In questi disegni, che l’artista ha sempre continuato a realizzare durante tutto il suo percorso artistico, compaiono delle teste monocrome, dalle linee sintetiche, che rimandano alla scultura del Novecento, da Modigliani a Brancusi. Per VB01, come per creare un’ideale estensione tra i suoi disegni e la realtà, l’artista aveva invitato anche trenta ragazze, conoscenti e studentesse dell’Accademia, vestite con i suoi abiti, come a volere rendere pubblico il suo immaginario interiore, i suoi tormenti. Ed è qui che scopre la potenza evocativa della presenza delle ragazze come “sculture viventi” per le sue opere, in cui coagulare le sue esperienze autobiografiche, i suoi riferimenti simbolici, culturali e sociali. 

Da quel momento, giovani donne diventano le protagoniste dei primi eventi performativi: ragazze reclutate per strada, vestite o svestite, con l’obiettivo di realizzare composizioni visive prospettiche, spesso monocrome, in riferimento alla tradizione della storia della pittura, del cinema ma anche ai fenomeni di costume e alla moda. Le donne sono scelte in base alla loro somiglianza a precise tipologie femminili e, progressivamente all’ascesa della fama dell’artista e alla complessità delle messe in scena, le performance vengono realizzate impiegando modelle professioniste, alle quali l’artista unisce spesso persone appartenenti alla sua cerchia familiare o di amicizie, con il contributo anche di stilisti, truccatori e acconciatori. Negli anni Novanta l’immagine femminile dominante era quella delle top model anoressiche sulle copertine di Vogue, collezionate dall’artista e da lei stessa associate alle figure delle sante beate ammirate nelle chiese e nei musei che visitava da piccola con la madre, con la quale è cresciuta senza la televisione.

Dagli iniziali riferimenti autobiografici, anche nell’estetica delle ragazze selezionate – giovani, magre, androgine, diafane con le lentiggini alle quali l’artista aggiungeva parrucche gialle o rosse, estremizzando il suo personale colore di capelli – le donne sono cambiate, sono diventate più pesanti, vissute, continuando il processo di proiezione autobiografica utilizzato come spunto per indagare gli aspetti più controversi della realtà contemporanea, come l’ossessione per la bellezza. A questo elemento si sono aggiunte le modelle nere, soprattutto dopo il trasferimento in America e donne di altre culture e nazioni scelte anche in base ai diversi contesti nei quali veniva invitata a realizzare il suo lavoro.

Anticipando il movimento Black Lives Matter, nei primi anni duemila l’artista ha realizzato diverse opere di aperta denuncia su tematiche razziali come VB54 del 2004 tenutasi all’aeroporto JFK di New York, quando aveva posizionato una cinquantina di modelle nere nella lounge del Terminal 5, incatenate ai piedi con manette simili a quelle usate dagli uffici dell’immigrazione, a memoria della deportazione degli schiavi. In seguito, VB61 nel 2007, realizzata in occasione dell’inaugurazione della 54esima Biennale di Venezia, per denunciare il genocidio in Sudan, presentava una trentina di donne sudanesi che giacevano a terra su una tela bianca, sdraiate, a faccia in giù, come cadaveri, accatastati uno sopra l’altro.

Attraverso la sua ricerca coerente, espressa in infinite variazioni che partono dal medesimo modulo espressivo (come le nature morte con bottiglie per Giorgio Morandi o il taglio della tela per Lucio Fontana e così per altri artisti), Vanessa Beecroft rompe gli stereotipi e crea un’originale forma espressiva che la configura come una delle personalità più interessanti e influenti nel panorama dell’arte contemporanea internazionale.

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